Luca Giuratrabocchetta, Country Manager Italy di Google Enterprise, spiega come stanno cambiando i rapporti tra vendor, fornitori e utenti in seguito alla diffusione di modelli che trasformano il software in servizio

Riduzione dei costi, trasferimento dei fattori di rischio, semplificazione di gestione: i benefici offerti dal cloud stanno aprendo le porte delle aziende a una modalità d’erogazione del software sempre più improntata al concetto di servizio, una formula che trova terreno fertile in un periodo di forti restrizioni di budget come quello attuale. Il grado di convenienza del cloud richiede, però, una valutazione attenta, soprattutto alla luce delle criticità e delle problematiche sollevate, come quelle nell’ambito della governance, della sicurezza o dei livelli minimi di servizio, tutti aspetti potenzialmente insidiosi. Per capirne la portata e i reali limiti Computer Business Review Italy ha incontrato Luca Giuratrabocchetta, Country Manager Italy di Google Enterprise.

 

Il Cloud Computing offre diversi modelli di deployment del software. Quale sarà secondo Google quello più diffuso nel prossimo futuro e su quale si basa la vostra offerta?
Pubblico, privato e ibrido sono le tre modalità di servizio con cui le aziende possono accostarsi al cloud. Con la versione pubblica un provider fornisce un servizio, erogato attraverso Internet e acceduto attraverso browser, alle tutte quelle aziende, che non hanno necessità di installare software e hardware a casa propria. Per fare questo il provider si appoggia a una piattaforma elaborativa e di storage diffusa nel mondo, che mette a disposizione delle imprese potenza, sicurezza e disponibilità, liberandole contestualmente di un pezzo d’infrastruttura IT. Con il cloud privato, invece, si realizza un’evoluzione logica della virtualizzazione, disaccoppiando l’hardware dalle applicazioni tramite strati di virtualizzazione molto potenti. In questo modo è possibile rendere più flessibile il sistema, tenendolo in casa propria. La via di mezzo è rappresentata dal cloud ibrido, che mantiene in casa alcune applicazioni, dandone altre in gestione esterna, una modalità che, a mio parere, riscuoterà sempre più consensi. Nello specifico, per quanto riguarda l’offerta Google, le nostre soluzioni si muovono all’interno del cloud pubblico, strutturato su una rete mondiale di data center in grado di offrire servizi in SaaS a privati e Pubbliche amministrazioni.

 

Secondo lei, la modalità ibrida introdurrà una maggiore complessità di governance all’interno delle aziende?
Integrazione e governance sono tematiche presenti anche quando viene fatto e tenuto tutto in house. Quindi il modello ibrido, di per sé, non introduce nuovi livelli di complessità. Esistono, comunque, dei fattori di semplificazione dei processi d’integrazione, rappresentati soprattutto dal ricorso a strumenti basati su tecnologie open, come Java o Piton, per esempio. Le tecnologie proprietarie, infatti, sia che ci si muova in casa o nel cloud non sono di alcun aiuto. Dal punto di vista pragmatico, poi, oggi trovare sul mercato risorse in grado di sviluppare integrazioni su tecnologie aperte è più facile e meno costoso. Al contrario l’accesso a competenze su tecnologie proprietarie, più complesse e tradizionali, risulta attualmente più difficile e oneroso, soprattutto se per ovviare alla scarsità di skill sul mercato si deve procedere a training di mesi o anni del personale interno.

 

Per identificare correttamente le componenti da tenere in casa e quelle da esternalizzare, le aziende dovranno sottoporsi a un’analisi approfondita non solo del parco applicativo ma anche dei processi. Non pensa che questo aspetto possa limitare l’affacciarsi di molte reatà al Cloud Computing?
Per procedere all’esternalizzazione delle applicazioni d’impresa è fondamentale avviare un’analisi iniziale, il cui livello di approfondimento può cambiare in funzione delle dimensioni aziendali. Una realtà medio-piccola può strutturare questo studio per blocchi, certa di disporre già di molti dati: qualunque dipartimento IT di un’azienda di media dimensione sa bene, infatti, quali siano gli applicativi in uso. Per affrontare con più efficacia questo aspetto, Google ha, comunque, deciso di lavorare con alcuni system integrator locali e internazionali che oltre a proporre le soluzioni, facciano sempre precedere le implementazioni da progetti di assessement, analisi fondamentali per procedere a una razionalizzazione interna e che andrebbero eseguite comunque nel caso si decida per un cloud privato. Non si tratta di studi da mezzo milione di euro, ma da una a qualche decina di migliaia di euro in base alle dimensioni aziendali: un costo normalmente assorbito nel momento in cui il progetto entra in fase di realizzazione e che rappresenta solo alcuni decimi di punto percentuale sull’intera spesa IT di un’impresa.

 

Quali sono i cambiamenti innescati nei rapporti tradizionali tra utenti, operatori di mercato e fornitori?
In tante aziende, anche di grandi dimensioni, si sta assistendo a un movimento quasi democratico della tecnologia, attivato dalle richieste stesse degli utenti. Da utenti privati tutti noi siamo abituati, infatti, a usare strumenti veloci, facili e sempre disponibili; per motivi legacy e collegati agli investimenti fatti negli ultimi 15 anni, quando siamo utenti business siamo costretti, invece, a lavorare con strumenti più lenti, complessi e non sempre disponibili. Questo divario spinge alla richiesta di applicazioni business profondamente diverse, facendo operare un cambiamento radicale al ruolo aziendale dell’It, che non può più permettersi di essere passivo, ma deve intercettare la domanda, compiere le dovute analisi dell’offerta di mercato e identificare gli strumenti più adatti. Da parte loro i vendor si stanno trovando in una situazione diversa dal solito: non hanno più solo il responsabile IT come interlocutore, ma le diverse linee di business, interessate ad avere rapporti diretti con i vendor. Questo aspetto rappresenta un rischio per i dipartimenti IT, i più moderni e più veloci dei quali possono mantenere un pieno controllo IT delle aziende anticipando i processi di analisi per introdurre strumenti sempre più rispondenti alle richieste degli utenti.

 

Oggi in Italia la banda larga rappresenta ancora un problema. Quanto può limitare la diffusione di soluzioni cloud di tipo pubblico questa componente infrastrutturale?
Sicuramente in Italia il problema della banda esiste ancora e purtroppo costituisce un elemento in grado di limitare la crescita economica del nostro Paese: la competitività delle aziende è, infatti, legata anche all’accesso al mondo delle informazioni attraverso connessioni veloci. Le telco stanno provvedendo alla soluzione di questa criticità, ma è importante sapere che le applicazioni cloud di tipo pubblico sono nate tanti anni fa, quando la banda larga non esisteva neanche negli Stati Uniti. Quindi dal punto di vista architetturale parliamo di soluzioni costruite per essere il più leggere possibile. Nel caso di apertura di una casella di posta via browser, per esempio, è possibile limitare l’impiego di banda, visualizzando gli allegati senza scaricarli. Detto questo, è chiaro che per avere uno sfruttamento completo delle applicazioni, in cui magari oltre a ricevere le email, si possa collaborare, chattare e partecipare a videoconferenze, la disponibilità di banda costituisce un aspetto fondamentale. Tuttavia noi stessi abbiamo ancora clienti che usano gli strumenti Google appoggiandosi al doppino di rame.