Nel corso di un recente convegno Aica dedicato all’analisi della nuova figura professionale è emerso come questa appartenga in maniera trasversale a quel personale dell’azienda dotato al contempo di skill informatici e visibilità sul business

Sta a metà tra chi segue l’It in azienda e chi invece si occupa di far fruttare gli investimenti del management, e nel proprio lavoro ha bisogno della precisione tecnica del primo e della flessibilità e agilità mentale del secondo. È la figura “ibrida” del business analyst, cui l’Aica (Associazione italiana per l’informatica e il calcolo automatico) ha recentemente dedicato un incontro di approfondimento teorico. “Un business analyst deve essere molto efficace nel cogliere e circoscrivere lo specifico caso aziendale, saperne definire i requisiti, modellare i processi gestionali e identificare una tipologia adeguata di soluzioni ICT. Inoltre, sono auspicabili una grande capacità comunicativa e una solida preparazione in campo tecnologico” ha spiegato il responsabile certificazione dell’associazione, Paolo Schgor. La versatilità, dunque, è la qualità principale che si richiede a un professionista che non è né un CIO né un responsabile finanziario, e che, però, rimane protagonista dei processi di business dell’impresa, perché è spesso chiamato dalla dirigenza a migliorare la produttività a partire dall’adozione di una specifica soluzione informatica, certo, ma sulla base di una preliminare valutazione del contesto in cui andrà ad agire e con una consapevolezza degli effetti delle sue mosse che gli altri dipendenti non hanno. “Prima di muoversi un buon business analyst sa prendere in considerazione e sa valutare i vincoli culturali e i cambiamenti a livello organizzativo e psicologico che il cambiamento generato dai suoi piani produrrà tra i colleghi” ha proseguito Schgor. Business analyst come esperto di change management? Probabile, ma non solo questo. Rilevazioni dell’Aica alla mano, infatti, tale profilo sembrerebbe appartenere trasversalmente a software developer, It administrator, X Systems Engineer, Is project manager e Network manager, in linea sostanziale con quanto accade nel resto d’Europa, anche se poi, per quanto riguarda l’Italia, è solo il 2,3% dei “candidati” totali a dimostrare di possederne di fatto le competenze.

 

La parola agli esperti
Quali sono, quindi, gli scenari evolutivi di una professione che, in azienda, rappresenta la sintesi di diverse abilità e specializzazioni? Hanno cercato di chiarirlo due addetti ai lavori presenti al convegno, Guido Repaci di Cartorama Group ed Enzo Vighi di Vittoria Assicurazioni. “Il business analyst è, essenzialmente, una funzione di staff che opera come un agente di cambiamento, rappresenta le esigenze economiche della sua organizzazione ma, al contempo, intrattiene forti interazioni con l’IT, contribuendo all’assunzione delle decisioni giuste per l’azienda grazie alla capacità di esaminare la portata complessiva di ciascuna opportunità di sviluppo che, di volta in volta, si presenta” ha affermato il primo, che, in Cartorama, è chief process and innovation officer. Meta-competenza, invece, è il concetto su cui ha insistito il secondo, Cio presso la casa di assicurazioni milanese. “Per raggiungere livelli di eccellenza, ovvero per risultare davvero utile all’impresa – ha concluso il responsabile IT –, un business analyst deve essere in grado di tenere l’equilibrio tra istanze differenti, esperto ma non troppo innamorato di tecnologia (dal momento che deve sempre avere un occhio al ritorno dell’investimento, ndr), capace di ascoltare le esigenze delle persone coinvolte nelle sue decisioni e di arrivare a un punto di accordo condiviso, ma, soprattutto, flessibile quanto basta per non sclerotizzarsi nelle routine lavorative”. Insomma, non un mestiere per tutti.