Nonostante si parli in maniera ricorrente di Pubblica Amministrazione digitale e si assista a un moltiplicarsi di servizi, l’utilizzo effettivo di tali servizi rimane appannaggio quasi esclusivo di commercialisti e di qualche manager d’azienda

Nel nostro Paese si parla, ormai, in maniera ricorrente per non dire quasi ossessiva di Pubblica Amministrazione digitale, e-Government, informatica e telematica per i cittadini e si assiste a un quasi quotidiano moltiplicarsi di servizi e iniziative che, in linea di principio, dovrebbero consentire l’informatizzazione della nostra PA a livello centrale e periferico.
Sotto il profilo normativo, questo gran parlare di amministrazione digitale si è tradotto nell’ultimo decennio in un rapido (e talvolta, forse, eccessivo) rincorrersi e sovrapporsi di norme e regolamenti: il Codice dell’Amministrazione digitale è già giunto alla sua “terza riedizione” senza che molte delle norme (talune delle quali illuminate) in esso contenute abbiano mai ricevuto concreta applicazione. Questa complessa infrastruttura normativa, stratificatasi nel tempo ha, d’altra parte, prodotto una serie inenarrabile di strumenti informatico-giuridici tanto vasta quanto scarsamente nota al grande pubblico e, naturalmente, ai cittadini. Abbiamo, ormai, quattro tipi di firma elettronica: quella semplice, quella avanzata, quella digitale e quella qualificata.
L’utilizzo effettivo di tali strumenti, tuttavia, rimane appannaggio pressoché esclusivo dei commercialisti e di qualche manager d’impresa ai fini della trasmissione dei bilanci delle società in camera di commercio e di pochi altri adempimenti di modesto rilievo. Analoga fortuna ha, sin qui, avuto la carta di identità elettronica: più volte rappresentata come lo strumento unico di identificazione del cittadino e accesso da parte del medesimo ai servizi della Pubblica Amministrazione è, in realtà, rimasta un’eterna sperimentazione. Siamo l’unico Paese al mondo a utilizzare, almeno sulla carta, la posta elettronica certificata e nel quale si è, addirittura, scelto di offrire gratuitamente a tutti i cittadini un indirizzo di “quasi” posta elettronica certificata (il “quasi” è dovuto alla circostanza che la CEC PAC offerta in regalo ai cittadini italiani è utilizzabile esclusivamente ai fini della comunicazione tra PA e cittadini e non può essere utilizzata per comunicazioni diverse).
Agli italiani, indistintamente cittadini e imprese, la posta elettronica certificata, tuttavia, non piace e, infatti, hanno sin qui mostrato un generale disinteresse per uno strumento informatico-giuridico che, d’altro canto, rischia di isolarci sempre di più dal resto del mondo in quanto non è utilizzato in nessun altro Paese. Con cadenza poco più che annuale, Parlamento e Governo sfornano nuovi provvedimenti e/o regole tecniche sull’efficacia probatoria dei documenti informatici e sull’archiviazione digitale dell’enorme mole di documentazione cartacea per finalità contabile e amministrativa che continuiamo a produrre.

L’Agenda digitale in Europa
Tanto lavoro, tante regole e tanti strumenti ma, secondo i dati resi noti nei mesi scorsi dalla Commissione Europea in relazione allo stato di attuazione dell’Agenda digitale nei diversi Paesi dell’Unione Europea il nostro, con riferimento all’informatizzazione della PA, è un Paese strano e che non può, certamente, definirsi moderno. Secondo Bruxelles, infatti, l’Italia è una delle prime della classe in termini di messa a disposizione online di servizi pubblici mentre è tra le ultime in termini di utilizzo, da parte dei cittadini, di tali servizi. Per quanto possa essere difficile da credere per chi, quotidianamente, si confronta con l’elefantiaca burocrazia italiana, secondo la Commissione UE la nostra Pubblica Amministrazione renderebbe disponibili online ai cittadini il 100% dei servizi pubblici online, il che la collocherebbe al primo posto della classifica europea a pari merito con Austria e Irlanda.
Allo stesso modo, il nostro Paese sarebbe primo in classifica (anche se, in questo caso, in compagnia di un più folto elenco di altri Paesi quali Austria, Repubblica Ceca, Germania, Danimarca, Estonia, Spagna, Finlandia e Irlanda) in termini di servizi pubblici messi a disposizione, online, alle imprese.
Il nostro Paese è, per contro, in fondo alle classifiche europee in termini di uso dei servizi della PA digitale da parte dei cittadini. Agli italiani, in altre parole, i servizi pubblici online o, almeno, le modalità con le quali questi ultimi sono resi disponibili sembrano non piacere affatto. Secondo gli stessi dati resi disponibili da Bruxelles, infatti, solo il 22% degli italiani utilizza Internet per interagire con la Pubblica Amministrazione il che ci vale il quintultimo posto nella classifica dell’Europa a 27. Peggio di noi, solo Croazia, Grecia, Turchia e Romania. La musica non cambia, anzi il ritmo diviene addirittura più preoccupante se si prendono in esame i dati relativi all’utilizzo da parte dei cittadini italiani della Rete come strumento per il semplice invio di moduli alla Pubblica Amministrazione. Nonostante la straordinaria invenzione della CEC PAC regalata (si fa per dire) a tutti i cittadini, solo il 7,5% della popolazione utilizza Internet per inviare moduli compilati alla Pubblica Amministrazione il che ci vale, ancora una volta, il quintultimo posto in classifica davanti alle solite Grecia, Croazia, Repubblica Ceca, Turchia e Romania.
Che il problema siano le regole, i codici o gli strumenti informatici giuridici sin qui individuati e realizzati, poco conta. Il problema è che la PA digitale sembra continuare a rimanere un’eterna ambizione, un perenne obiettivo e, talvolta, persino una semplice speranza ma nulla che rassomigli a una realtà e/o a una dimensione attuale e raggiunta. Occorre (sembra evidente) cambiare regole, strumenti e politica dell’innovazione. C’è ancora davvero tanto lavoro da fare.