Nonostante i recenti numerosi insuccessi delle operazioni di leveraged buyout, i fondi che hanno capitali continuano ad investire

Alcune banche internazionali, nonostante abbiano dovuto ristrutturare o annullare una parte dei prestiti fatti per finanziare le acquisizioni, stanno riprendendo a finanziare le operazioni di LBO. Perseverare diabolicum o qualche altra motivazione? Le operazioni recenti più note al pubblico italiano sono state l’acquisizione di Findus da parte di un’azienda di Permira per € 805 di prezzo e ben € 500 di leva; l’acquisizione di Teamsystem da parte di HG (Bain Capital era il venditore); l’acquisizione da parte di Blackstone di Dynergy per $ 4,7 miliardi (con un premio del 62% rispetto ai valori di borsa). E’ però necessario andare a vedere le particolarità e le motivazioni di queste operazioni (la prima citata è di natura industriale, le altre sono prettamente finanziarie) ed esaminare il contesto generale per comprendere che il private equity di tipo “LBO” sta facendo molte operazioni senza grande senso economico ed è avviato ad essere fortemente ridimensionato.

 

Gli interessi degli investitori e dei gestori

In genere le operazioni di buyout realizzate recentemente si riferiscono ad aziende che generano molta cassa (e quindi consentono un po’ di leva) e sono motivate essenzialmente dalla necessità dei grandi fondi di impiegare a tutti i costi i capitali disponibili. Ne dà dimostrazione l’ultima analisi del settore fatta da Prequin, una società specializzata nel seguire il mondo del fondi di leveraged buyout. Tale analisi riporta una stima del “dry powder”, cioè dei capitali che gli investitori finanziari si sono impegnati a versare su richiesta dei gestori, ma che per il momento non sono stati ancora utilizzati. Il contratto-tipo fra investitori finanziari e gestore di un fondo ha un periodo di investimento di 5 anni; i capitali che non sono stati utilizzati in tale periodo sono “liberati”. Dei capitali raccolti nel periodo 2005-2007 rimangono inutilizzati ben $ 400 miliardi , che entro 3 anni si ridurranno a zero indipendentemente dal fatto che siano investiti o meno. I gestori ovviamente sono alla ricerca di opportunità di investimento possibilmente grandi, sia perché è il loro mestiere, ma soprattutto perché non vogliono rinunciare ai management fees del 2% che possono caricare sui capitali investiti: in aggregato più di $ 8 miliardi all’anno senza contare anche i transaction fees che molti gestori hanno la sfrontatezza di caricare sui singoli deal. Il tema di far fruttare veramente i capitali disponibili, in modo da poter incassare eventualmente anche le commissioni di incentivo (carried interest; tipicamente il 20% dei capital gain complessivo di ciascun fondo) è diventato secondario anche perché, con la serie di insuccessi recenti, per tantissimi operatori è diventata remota la possibilità di ottenere effettivamente anche tale commissione.

 

I rapporti incrociati

Il settore del private equity era nato su premesse molto diverse; l’obiettivo dei gestori era di generare un capital gain per gli investitori e di riceverne una parte, mentre i fees annuali dovevano servire per pagare semplicemente le spese di gestione. Con l’abnorme aumento della dimensione dei fondi, e con rendimenti in forte calo o negativi della maggior parte dei fondi recenti, si è invertito l’obiettivo: oggi i gestori dei grandi fondi internazionali pensano solo a mantenere in vita le proprie società ed a continuare a pagare ai propri fondatori e partner, almeno per qualche anno, alti stipendi e bonus. Gli interessi degli investitori finanziari sono disallineati con quelli dei gestori, ma i contratti esistono ed hanno clausole capestro che non permettono la chiusura anticipata dei fondi. La soluzione che i gestori hanno trovato al problema dell’investimento è quella di vendersi reciprocamente le aziende in portafoglio: nella prima metà del 2010 in Europa le transazioni fra fondi hanno rappresentato $ 15.8 miliardi che in percentuale è il 47% di tutte le operazioni di buyout. In ogni transazione ci sono costi e commissioni, e quegli investitori che sono presenti sia nel fondo cedente che in quello acquirente finiscono per pagare costi e commissioni aggiuntive per continuare a possedere una quota di quello che già era loro.

 

I nuovi rischi all’orizzonte

Il problema fondamentale odierno è però quello di ottenere i rendimenti che giustifichino un’attività rischiosa e illiquida come quella del private equity. I successi finanziari del passato, che hanno attirato valanghe di capitali indirizzati a fondi sempre più grandi, si basavano su tre condizioni: l’acquisto di aziende poco managerializzate e molto svantaggiate dalla scarsità di capitali, l’utilizzo della leva finanziaria (acquisition financing) offerta con crescente generosità dalle banche, e l’uscita dall’investimento a valori crescenti. Le condizioni economiche attuali sono profondamente diverse: è difficile migliorare i risultati delle aziende in un contesto di stagnazione economica, la leva finanziaria si è fortemente ridotta anche per effetto dei numerosi casi di buyouts in default, i valori di riferimento (per esempio i price earnings di borsa) sono relativamente bassi e probabilmente non cresceranno. Per acquisire una grande azienda utilizzando molto capitale proprio e poca leva, perseguendo veramente l’obiettivo di ottenere buoni risultati, bisogna avere una gran fiducia sia nelle proprie capacità di farle generare più cassa sia nella prospettiva di trovare fra 4-5 anni (la durata normale degli investimenti) una pluralità di fondi che si accapiglieranno per comprarsi l’azienda, facendo quindi lievitare il prezzo. Ma quando si parte con un’acquisizione a seguito di un’asta si paga sempre un prezzo elevato (10 volte l’EBITDA nel caso di Findus); la fiducia nelle proprie capacità e nella fortuna deve essere quindi al massimo. O più probabilmente, si pensa per ora semplicemente ad investire per non farsi scappare la possibilità di incassare le commissioni di gestione per molti anni; poi, quando si dovrà vendere si spera nella fortuna.

 

Lo squilibrio domanda/offerta nel settore dei buyouts

E’ proprio la prospettiva dell’exit che dovrebbe spaventare i gestori; oggi ci sono più capitali a caccia di investimenti che opportunità, ed infatti le transazioni di tipo buyout sono attualmente al minimo del decennio, principalmente perché chi ha aziende da vendere attende momenti migliori. Ma i capitali disponibili nei fondi di buyout scadono progressivamente e non sono rimpiazzati nella stessa misura; nel primo trimestre del 2010 i nuovi commitment ai fondi sono al livello dei primi anni 2000 e su base annua potrebbero assestarsi a meno di un terzo di quelli che erano nel 2008; inoltre gli investitori finanziari non danno più la priorità al settore dei grandi buyouts e stanno spostando l’allocazione dei capitali ai mercati emergenti ed a gestori specializzati nelle operazioni speciali (per es. turnaround) e di piccole/medie dimensioni. Di questo passo, al momento di vendere le grandi aziende acquistate oggi in USA ed in Europa ci si troverà un una condizione di domanda/offerta capovolta, con tutti i gestori che vogliono vendere e quasi nessuno più in condizioni di comprare.

 

Il ridimensionamento del business

Anche se il ridimensionamento del settore del private equity sarà importante la situazione non sarà però catastrofale; si tornerà alla dimensione che il settore aveva nella prima parte del decennio, e cioè circa 1/3 del picco del 2007/8, e contemporaneamente con uno spostamento del mix verso l’Asia ed il Brasile. I rendimenti continueranno ad essere bassi: il rendimento annuo medio (IRR) del decennio 1999/2009 è stato del 7,7% in USA e del 12,5% in Europa ma in entrambi i casi il trend è stato decrescente e non si vede per quali ragioni dovrebbe invertirsi in futuro. Per l’esattezza, non si vede perché mai, con tali prospettive di rendimento, un investitore finanziario dovrebbe impegnare capitali, perdipiù illiquidi per un decennio; ci sono però stati dei singoli fondi che per abilità o fortuna hanno generato ritorni superiori, e gli investitori sperano sempre di essere in grado di trovare il cavallo vincente del futuro. L’esperienza recente non è però incoraggiante: se si prende a riferimento quella dell’investitore finanziario americano più importante (CALPERS), che in 20 anni ha investito $ 54,6 miliardi in 298 fondi di buyout, dei 189 fondi lanciati in USA ed in Europa dal 2005 solo 3 hanno generato in ritorno fra 1,5 e 2 volte il capitale investito mentre tutti gli altri hanno rendimenti inferiori o addirittura negativi nel 50% dei casi! I rendimenti elevati dei fondi di buyout sono solo un ricordo degli anni ’90; da allora i rendimenti medi sono in continua diminuzione e oggi sono azzerati.

 

Le nuove finalità operative

Ecco quindi come il settore del private equity si è trasformato. All’inizio era finalizzato a migliorare la performance delle aziende, dare elevati ritorni agli investitori e remunerare i gestori sulla base della performance; oggi cerca soprattutto di sopravvivere con i fees di gestione, comprando qualunque azienda in vendita pur di allontanare il momento in cui gli investitori non pagheranno più le commissioni e non daranno più nuovi commitment. E gli investitori finanziari? La maggior parte spera che i grandi gestori ai quali hanno affidato i propri capitali non riescano ad investire e che li liberino quindi degli impegni; gli investitori che continuano a credere nel settore e hanno capitali da investire ricercano i gestori più piccoli e specializzati che operano in situazioni con meno concorrenza e che fanno bene il mestiere originale e cioè di aiutare le aziende famigliari a crescere per poi quotarle o venderle ad un operatore industriale. In ogni caso si farà molta attenzione a collimare gli interessi di investitori e gestori e ritornare a remunerare questi ultimi sulla base dei risultati.