Nel corso dei recenti vertici tenutisi a Bruxelles i rappresentanti dei ventisette Paesi membri hanno convenuto di riformare il Patto di stabilità entro il 2011…

… e di rendere definitivo, nel 2013, il fondo salva-crisi varato in primavera per soccorrere la Grecia. Le visioni opposte sulla gestione delle finanze pubbliche di Italia e Germania.

 

La decisione finale, sulla possibilità di spingersi ad apportare modifiche alla struttura del Trattato di Lisbona, è rimandata alla prossima riunione del Consiglio Europeo di dicembre, quando il suo Presidente stabile, Herman Van Rompuy, avrà compiuto tutte le valutazioni necessarie a stabilire l’opportunità di emendare la neonata architettura istituzionale in prospettiva di una riforma del Patto comunitario di stabilità e crescita, come da mandato ricevuto dai Ventisette. Qualche considerazione generale però, utile a fare un po’ di chiarezza nell’ambito della “fumosa” legislazione dell’Unione, spesso lontana dal sentire comune dei suoi cittadini, si può cominciare a farla. Innanzitutto, i fatti. Gli accordi fuoriusciti dal consesso europeo di Bruxelles parlano del 2011 come termine ultimo per procedere alla riforma del Patto di Stabilità (fissazione definitiva del debito pubblico dei Paesi membri al 60% del Pil e deficit di bilancio sotto il 3%, pena l’intervento, entro sei mesi dall’eventuale accertamento dello sforamento dei tetti stabiliti, di sanzioni comminate dal Consiglio) e del 2013 come scadenza per la conversione in meccanismo anti crisi permanente del fondo di salvataggio triennale, varato la scorsa primavera per evitare il default della Grecia. Sullo sfondo, le pressioni della Germania di Angela Merkel affinché le suddette modifiche siano inserite all’interno della legislazione prevista dal Trattato e l’Europa “si doti di un reale governo economico, pienamente funzionante e condiviso dai Paesi membri”.
Passando in rassegna gli effetti delle decisioni prese dai Ventisette, la prima riflessione va all’Italia. Grazie all’opera diplomatica messa in atto dal nostro esecutivo, infatti, il Governo sembra aver ottenuto dall’Ue il compromesso per cui, nel calcolo complessivo del debito, sarà considerato anche il livello di indebitamento privato di un Paese. Tale scenario dovrebbe allontanare dall’Italia, che allo stato attuale esibisce un rapporto debito pubblico/Pil del 118%, lo spettro delle sanzioni, dal momento che, nei parametri di giudizio della Commissione, dovrebbero essere inclusi anche criteri inerenti la finanza privata, come il risparmio delle famiglie, la solidità del sistema bancario, il sistema pensionistico e la bilancia commerciale; tutti fattori che innalzano il livello di competitività del Bel Paese nel perimetro comunitario. Chi non guarda con troppo favore a questo ammorbidimento della linea di rigidità sui bilanci è, di certo, il club dei Paesi “virtuosi” capeggiato dalla Germania, che teme di vedere disperso il patrimonio di stabilità dei conti pubblici accumulato nel corso degli anni, e in certi casi prescritto dalle Costituzioni nazionali, a favore dei molto meno prudenti “pigs”, prima fra tutti la Grecia sull’orlo del fallimento. In mezzo, una nuova disciplina europea, che cerca, tra negoziazioni e compromessi, di dare all’Unione una disciplina complessiva, per garantirne la stabilità finanziaria e la crescita economica reale.