Il mondo occidentale nel quale il nostro Paese è inserito sta vivendo una crisi epocale, di cui gli aspetti finanziari sono solo quelli più superficiali ed evidenti

Nelle parti più interne è invece in atto una trasformazione di lungo periodo ed è questa che deve essere compresa e affrontata con le giuste misure, che richiedono comprensione, competenza e visione strategica.

Quello che stiamo vivendo ormai da alcuni anni è un processo di trasformazione e di inedito cambiamento degli equilibri mondiali che, finora e solo grazie alle istituzioni nazionali, comunitarie e internazionali e alla storia del secolo precedente, non si dispiega in uno scenario dove prevalgono logiche belliche, almeno su scala mondiale. E’ la prima volta che ciò avviene, coinvolgendo miliardi di persone e che si delinea con una cinetica del tutto inusuale. Quella che oggi indichiamo come “crisi dei mercati finanziari” è in realtà la presa di coscienza di fenomeni in atto da diversi anni e che sono esplosi in tutta la loro virulenza. Sebbene gli effetti si siano evidenziati in un lasso di tempo assai breve, essi vanno ricondotti a trend decennali, così come il nuovo corso impiegherà, a mio avviso, almeno un decennio prima di trovare nuovamente un assestamento. Testimonianza di ciò valgano per esempio i dati sulle quote mondiali dei primi 15 Paesi industriali, elaborati dal Centro Studi di Confidnustria. La Cina è passata dall’8,3% del 2000 al 21,5% del 2009, quasi triplicando il suo peso sulla scena mondiale. Parallelamente gli Stati Uniti sono scesi dal 24,8% del 2000 al 15,1% del 2009. Nello stesso lasso di tempo il peso del Giappone si è analogamente ridotto dal 15,8% del 2000 all’8,5% del 2009: si tratta di una vistosa contrazione che ha colpito l’asse industriale e tecnologico Washington-Tokio (insieme hanno perso circa il 17% delle quote mondiali di produzione industriale). L’Italia è rimasta allineata intorno ad un valore del 4% (era del 4,1% nel 2000 ed è sceso al 3,9% nel 2009). Stessa immagine presenta l’Europa con una quota del 25,7% nel 2000 e del 24% nel 2009. La tendenza di fondo è lo spostamento della produzione industriale verso l’area dei Paesi Bric (Brasile, Russia, India, Cina), passata da una quota del 12,8% nel 2000 al 29,3% del 2009. In sintesi, mentre la Cina diventa il “grande produttore del mondo” gli Stati Uniti si prestano a diventare il “grande consumatore”.

 

Grandi cambiamenti in atto

Sotto il profilo finanziario, questo tumultuoso passaggio di testimone si è tradotto in un quasi azzeramento del tasso di risparmio negli Stati Uniti e in una crescita significativa dei livello di indebitamento in capo ai consumatori. La crisi conseguente nelle grandi istituzioni finanziarie, banche e banche d’affari ha costretto gli stati nazionali a farsi carico da un lato dei processi di relativo salvataggio, dall’altro del mantenimento di condizioni finanziarie espansive per non deprimere eccessivamente la situazione economica. Così, in pochi mesi il debito pubblico dei Paesi economicamente avanzati ha subito, rispetto al prodotto interno lordo, un incremento fra i 20 e i 40 punti percentuali. Per contro, i Paesi emergenti, crescendo a ritmo sostenuti, sono diventate vere e proprie riserve valutarie con un bassissimo debito pubblico. Questa circostanza ha ampliato anche il divario tra i Paesi in deficit nelle partite correnti e Paesi in surplus, identificando nei primi i grandi importatori/consumatori e nei secondi i grandi esportatori/produttori. Questa crisi è quindi la conseguenza di un processo di crescita non equilibrato, caratterizzato da alcuni importanti elementi quali: 1) un abnorme export della Cina, il “grande produttore”; 2) un eccessivo consumo americano, il “grande consumatore”; 3) l’allargamento della base di consumatori e quindi della domanda mondiale; 4) la naturale crescita nel prezzo delle commodities. La crisi attuale non è dunque la conseguenza solamente della finanza e dell’avidità dei suoi attori. La crisi ha avuto un impatto importante sui grandi numeri della contabilità economica, sebbene non vada dimenticato che ci troviamo di fronte ad una situazione differente da quella della Grande Crisi del 1929. In sintesi si può rilevare che: 1) la crisi ha ridisegnato i confini della crescita economica, accentuando le asimmetrie tra Paesi avanzati e Paesi emergenti, con impatto sulle ricchezze e sull’occupazione; 2) la crisi ha altresì ridisegnato i confini tra settore pubblico e privato con effetti sulla responsabilità in capo agli Stati, sulla libertà economica, sul diritto e sulle istituzioni.

 

Le complessità italiane

Non vi è dubbio che viviamo in un periodo rivoluzionario. Il ministro Giulio Tremonti, all’inizio dello scorso anno aveva detto che siamo in un “terreno incognito”. Chi conosce le discipline militari sa bene come questa affermazione esponga i soggetti a rischi talvolta imponderabili. Quello che è certo è che, almeno nei Paesi occidentali, avendo consumato più risorse di quelle prodotte, ora siamo costretti a costruire un futuro in uno scenario duale. Bisogna cioè cambaire con meno risorse a disposizione, “crescere con il segno meno”. La transizione tra un vecchio e un nuovo mondo è la fase più delicata. Il problema allocativo con risorse decrescenti può avere derive imprevedibili sotto il profilo sociale. Mentre la crescita nelle economie emergenti mitiga le diseguaglianze e le riduce progressivamente rispetto a valori davvero inimmaginabili per noi, la stagnazione delle economie esaspera le diseguaglianze presenti e nascenti; in altri termini non possiamo più contare solo sulla crescita per ricomporle rendendole almeno accettabili. Questo è particolarmente vero per un Paese come l’Italia dove i relativi tratti emergono con nettezza: modesta mobilità sociale, accentuati corporativismi, fenomeni migratori che si diffondono talvolta per via sottocutanea e in modo entropico. Non so se ciò sia sufficiente per gestire il cambiamento, ma certamente c’è bisogno di una politica non ripiegata sul calendario settimanale, di una politica di orizzonte e di visione. La capacità di “guardare lungo” influenza anche la progettualità dei sistemi educativi, i primi a dover anticipare le tendenze di lungo termine. Non è forse un caso che il premier indiano Singh abbia indicato nel sistema educativo il campo di maggiore attenzione per il suo Paese nel prossimo decennio. Se oggi, ad esempio, nelle politiche energetiche del Paese si intende rilanciare il nucleare, occorre costruire un sistema educativo che sia coerente con questa prospettiva, proprio perché si lavora sui tempi lunghi. Se i tempi non sono coerenti con le scelte si arriva troppo tardi rispetto al bisogno. Non sarebbe la prima volta che ciò accade per il nostro Paese. Questo non vale solo per l’esempio riportato sulla politica energetica, ma per tutto il sistema economico. Rifuggire dalla necessità di ricostruire il tessuto industriale immaginando un Paese come fosse un grande villaggio vacanze significa illudere intere generazioni di giovani. D’altro canto, anche una visione consumistica della “ripresa”, il desiderio di tornare al “prima della crisi” come se questa fosse un ciclo secondario dentro un trend assestato è fuorviante in chiave storica e di politica economica. Certamente la ripresa della domanda con l’introduzione di nuovi prodotti e di nuove tecnologie porterebbe un beneficio non secondario alla nostra economia. Tuttavia essi, pur importanti, non sono l’unica condizione per una “ripresa”, soprattutto per l’Italia, considerando anche i problemi legati all’invecchiamento della popolazione, alla riduzione dell’attrattività degli investimenti esteri e alla disoccupazione giovanile.

 

Allora, quali prospettive?

Le considerazioni precedenti ci portano a dire che nei prossimi anni, come Paese, non potremo contare sulle dinamiche interne, ma potremo mantenere buoni livelli di benessere se potenzieremo la nostra capacità di attrarre, vendendo prodotti e servizi. Mentre la vendita di prodotti è chiara e contraddistingue la vocazione all’export secondo il modello tedesco, per i servizi occorre una seria riflessione che porti a distinguere i “servizi di consumo” dai “servizi di esportazione o di attrazione”. Mentre i servizi di consumo rappresentano economicamente un consumo di risorse che avviene sul luogo dove normalmente vengono prodotte, i servizi di esportazione o di attrazione sono vere e proprie esportazioni che attraggono capitali da luoghi esterni a quello di riferimento. La globalizzazione è quindi confronto a tutto campo, non solo di merci ma anche di capacità decisionali, di governance, di esercizio della leadership. Occorre avere una visione di orizzonte di lungo periodo e qualificare maggiormente le risorse umane, in prima fila i giovani. Quella che ci attende non sarà una nuova crisi, ma l’epilogo del percorso che avremo deciso di seguire.

 

Stefano Paleari, Rettore dell’Università di Bergamo (Inaugurazione Anno Accademico della Guardia di Finanza)