Dalla crisi si potrà uscire non solo adottando misure economiche, ma anche recuperando valori della nostra tradizione sociale, in vista di un necessario cambiamento che imporrà una necessaria rivisitazione del welfare


I numeri sono sotto gli occhi di tutti e vengono spiattellati in ogni occasione. La crisi ha comportato una forte contrazione del Prodotto interno lordo e ora ci resta – se tutto va bene – un tasso di crescita intorno all’1%. Troppo poco per gestire una fase di rilancio efficace. “Il nostro paese – sottolinea l’economista Giulio Sapelli – ha un basso grado di integrazione sistemica, a tutti i livelli”. Le reti ferroviarie e quelle stradali non sono congiunte e integrate. I tessuti produttivi sono disgregati e i centri produttivi sono ammassati in distretti che formano arcipelaghi spesso distanti. Mancano grandi gruppi industriali avanzati in grado di rigenerare filiere di sostegno interne al sistema, mentre molto è ancora parcellizzato in realtà di piccole e medie dimensioni. Ne esce un quadro coriandolizzato, dove l’immagine complessiva appare, appunto, a basso grado di integrazione. Su questi temi il professor Sapelli sta conducendo una serie di studi e approfondimenti.

Professor Sapelli, perché allora, tutto sommato e nonostante tutto, il Paese tiene?
Diciamo che l’Italia si mantiene unita e integrata perché c’è ancora un’elevata forma di integrazione sociale. Le fabbriche hanno chiuso e hanno licenziato o lasciato in cassa integrazione, ma la famiglia, la Chiesa e anche le forze sindacali hanno contribuito a mantenere saldo il tessuto sociale, senza traumi o esiti drammatici come è invece ad esempio accaduto in Francia, paese dove solo in France Telecom si è registrata una cinquantina di suicidi o dove, per la riforma delle pensioni, una buona fetta della cittadinanza è scesa in piazza contro il governo e con stile non sempre amichevole. In Francia la gente si è ribellata all’idea di innalzare l’età pensionabile da 60 a 62 anni. In Australia il governo ha deciso di alzare da 64 a 67 l’età pensionabile, senza colpo ferire. E’ evidente che la questione da affrontare è alla base, nei modelli culturali di riferimento della popolazione e dei valori condivisi.

Ma quanto potrà durare il nostro sistema, alla luce dei nostri valori condivisi, della peculiarità delle risorse e dei reali numeri in gioco?
Siamo di fronte alla necessità di un cambiamento, che deve riguardare tutte le forze sociali e tutte le generazioni. Teniamo presente anche che nel nostro Paese è notevolmente cresciuta la popolazione immigrata e che nulla potrà essere mantenuto come prima. I giovani, in particolare, hanno un’aspettativa sul loro futuro e sono in attesa di risposte da parte di una classe politica e dirigente che spesso latita.

Che cosa si può fare, praticamente, per affrontare questa emergenza?
Intanto cominciamo col dire che questa situazione è l’effetto di una condizione che si è sviluppata negli anni e che ha visto la progressiva riduzione del peso e del ruolo della classe media nella nostra società. Anche alla luce di questa grande trasformazione, a mio avviso si dovrebbe ripensare e ridisegnare il quadro complessivo delle relazioni industriali, che non vanno intese come frutto delle relazioni sindacali, ma come bacino di valori e di cultura della mediazione e della rappresentatività, a tutti i livelli.

E quindi, quali cambiamenti bisognerà introdurre nel nostro sistema?
Allora proviamo a partire proprio dai temi legati alle attività sindacali. Da noi esiste un dualismo della rappresentanza. Sotto ci stanno i lavoratori, sopra le rappresentanze sindacali che decidono e poi indicono referendum all’interno degli ambienti di lavoro per far esprimere agli operai e agli impiegati il gradimento agli accordi. E’ un modello antiquato. O i lavoratori fanno accordi, o non li fanno. C’è un livello di mediazione di troppo, che affatica il sistema e lo burocratizza. In vista di ogni trattativa o di ogni accordo ci sono scioperi, agitazioni che bloccano il sistema, visto che abbiamo numerose categorie produttive, ognuna delle quali ha il suo contratto e le sue esigenze. Non dico di arrivare all’assurdo di avere solo contratti individuali, ma certamente gli strati contrattuali e le diversità devono essere semplificate.

Che cosa deve portarsi al centro di un nuovo modello più in linea con i tempi? Quali sono le priorità?
Occorre riportare al centro delle relazioni industriali il lavoro. Centrale nella società è il mondo dei produttori, inteso in senso largo, come costituito da tutti coloro che partecipano alla produzione della ricchezza del Paese. Ne consegue una visione e una impostazione della responsabilità sociale, condivisa da imprenditori e forze sociali, in vista del bene comune. Le parti sociali devono trovare accordi di base sul salario e sulla produttività, proprio come storicamente aveva voluto affermare Karl Marx nei suoi studi. Ma dobbiamo anche pensare che in futuro lo stato da solo non riuscirà più a fare fronte alle spese per l’assistenza e la previdenza dei lavoratori.

Che cosa può conseguire da tutto ciò?
E’ inevitabile che si debba procedere lungo una traiettoria che apra le porte alla sussidiarietà e al ruolo cooperativistico delle associazioni. Intanto bisognerà far partire un welfare dal basso e non più dall’alto. I sindacati dovranno orientarsi verso nuove piattaforme contrattuali, che non siano più solo economiche, ma che tengano anche conto degli aspetti sanitari e assistenziali, scaricando così dallo stato alcuni costi che non saranno più sostenibili. In questo quadro torneranno ad emergere le società di mutuo soccorso, le cooperative di solidarietà e le associazioni di volontariato, per dare assistenza, formazione e sostegno al reddito, perché il mondo del lavoro avrà bisogni ed esigenze nuove.

Il lavoro sarà centrale, ma la questione cruciale resterà il welfare. E’ così?
Sì, credo che si dovranno proprio ripensare i termini del welfare perché ciò sarà imposto dal nuovo ciclo. Il salario non potrà essere legato alla sola produttività, ma anche alle necessità emergenti che abbiamo già individuato. Bisognerà trovare tavoli di intesa per far dialogare le parti sociali, in modo che condividano un processo comune. La società tornerà alla ribalta, forse più della politica. O meglio, la politica e le istituzioni dovranno essere più sensibili alle questioni sociali e non solo a quelle economiche.