Il settore delle biotecnologie in Italia è in costante crescita e risulta tra i comparti più attenti all’evoluzione dell’Itc e del trasferimento tecnologico

Per il futuro c’è anche grande attenzione per il ruolo dei capitali di rischio, a testimonianza che gli operatori del segmento risultano tra i più avanzati per conoscenze e disponibilità ad innovare.

Nonostante la difficile congiuntura internazionale, l’industria biotecnologica italiana è in continua crescita, e, a fine 2009, in Italia si contano 319 imprese, per lo più costituite tra la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, originate prevalentemente come start-up (nel 53% dei casi) e spin-off accademici (24%). Predominano le cosiddette “pure biotech”, 187 imprese, che hanno nelle biotecnologie il proprio core business: tra queste spiccano le micro (41%) e le piccole realtà (27%). Emergono per numerosità le aziende dedicate alla cura della salute (red biotech), ben 197 (pari al 59% del totale), dato in linea con la media europea, mentre i settori di applicazione white (biotecnologie industriali – 6%) e green (biotecnologie agro-alimentari – 14%), rivelano un peso percentuale superiore alla media europea. Nel settore relativo alla genomica, proteomica e tecnologie abilitanti è impegnato in Italia il restante 21% delle imprese. Secondo il “BioInItaly Report 2010”, realizzato da Assobiotec e Ernst & Young, con la collaborazione di Farmindustria, in Italia il giro d’affari dei prodotti biotecnologici nel 2008 ammonta a 6,8 miliardi di Euro. L’11% di questo fatturato è realizzato dalle cosiddette “pure biotech”, ovvero le realtà che hanno nelle biotecnologie il loro core business. Considerando invece il giro d’affari complessivo delle imprese operanti nel settore, quindi generato anche da prodotti e servizi non biotech, il fatturato complessivo sale a 17,8 miliardi di Euro nel 2008, in leggera crescita del 3% rispetto ai valori del 2007. Nel complesso, il censimento delle imprese biotech italiane “non pure”, secondo le rilevazioni di Assobiotec, mostra una crescita sostanziale: nel 2000, infatti, si contavano circa 150 imprese.

 

Nuovi segmenti

Dal 2010 Assobiotec, grazie alla partnership con Ernst & Young, ha adottato la metodologia Ernst & Young per la mappatura 2010 del biotech italiano: vengono quindi definite imprese “pure biotech” quelle che hanno il loro core business nel biotech e che “utilizzano moderne tecniche biologiche per sviluppare prodotti o servizi per la cura dell’uomo o degli animali, la produttività agricola, la lavorazione dei generi alimentari, le risorse rinnovabili, la produzione industriale e la tutela dell’ambiente”. Le imprese “non pure”, invece, coincidono con quelle definite dall’OCSE “imprese che utilizzano almeno una tecnica biotecnologica per produrre beni o servizi e/o per fare ricerca e sviluppo in campo biotech”. L’impiego di questa metodologia consente operazioni di “benchmarking” a livello internazionale, e il confronto tra la situazione italiana e quella dei principali paesi attivi nel biotech. Purtroppo non siamo in condizione di avere dati confrontabili per quanto riguarda i dati macro economici relativi agli inizi del 2000. Il comparto biotech investe prevalentemente in ricerca e sviluppo: data la specificità del settore, non esistono spaccati sugli investimenti in Ict e automazione, anche se possiamo dire che nel nostro settore il peso qualitativo di Ict e automazione è significativo. L’investimento annuo medio in ricerca delle pure biotech è di circa 2 milioni per azienda, di cui il 34% commissionata. Confrontando i dati relativi agli investimenti in R&S con quelli di fatturato, si rilevano investimenti pari al 6% del fatturato complessivo del comparto, con punte del 28% per le pure biotech. Nel complesso, il settore red rappresenta sicuramente il più significativo in termini di investimenti dedicati alla Ricerca & Sviluppo: gli investimenti in R&S delle imprese “red biotech” ammontano a 1,1 miliardi di Euro. I dati di settore non si focalizzano sulle spese relative all’acquisto di strumenti e attrezzature tecnologiche. In generale, invece, il comparto biotecnologico, in Italia, secondo il “BioInItaly Report 2010”, per finanziare la ricerca ricorre a diverse fonti economiche: in prevalenza grants (62% delle imprese), che comprendono finanziamenti pubblici, nazionali e regionali e fondi europei ed internazionali, cui segue il ricorso al debito (48% delle imprese). In sintesi, la ricerca biotecnologica in Italia reperisce finanziamenti soprattutto attraverso i bandi pubblici nazionali (MIUR – Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Ministero della Salute, MISE – Ministero dello Sviluppo Economico) e regionali, fondi e programmi internazionali (7° Programma Quadro, NIH – National Institute of Technology), che però non sono sufficienti a coprire le esigenze delle imprese in attività di ricerca e sviluppo. Anche il settore dei finanziamenti privati non è particolarmente sviluppato nel nostro Paese, dove non abbiamo una presenza significativa di Venture Capitalist e investitori a vario titolo, come avviene per esempio nel mondo anglosassone. L’elevato ricorso a grant e debito, registrato negli ultimi anni, ha giocato a discapito di altre forme di finanziamento molto più usate all’estero, come le alleanze strategiche. In generale, dato il particolare modello di business delle imprese biotech – che prevede elevati investimenti in R&S, e ritorni economici nel lungo periodo – l’orizzonte di cassa delle imprese è di meno di un anno in più del 50% dei casi. Ecco perché, secondo il “BioInItaly Report 2010”, la maggior parte delle imprese ha espresso l’intenzione, a due anni, di un maggiore ricorso a Venture Capital e Private Equity, oltre che ad alleanze strategiche, facendo minore ricorso ad operazioni di debito. Il comparto biotecnologico italiano registra una notevole crescita della propria capacità di innovare, come dimostrano i 233 progetti e prodotti in sviluppo (di cui 89 in fase di sviluppo preclinico e 144 in clinico), che trovano applicazione terapeutica nelle aree dell’oncologia (36% dei prodotti), dell’infiammazione e malattie autoimmuni (15%) e della neurologia e malattie infettive (entrambi 11%). A questi si aggiungono ulteriori 69 progetti in fase early-stage (o “discovery”), che rappresentano una interessante promessa per il settore per i prossimi anni, e che fanno salire a 302 i progetti e prodotti italiani complessivamente in sviluppo.

 

Tendenze degli investimenti

Per Alessandro Sidoli, Presidente di Assobiotec, Associazione nazionale per lo sviluppo delle biotecnologie, “il biotech ha un impatto diretto e indiretto assai rilevante in ambiti diversi e di grande rilevanza quali la cura della salute, l’alimentazione, l’agricoltura, l’ambiente, per citarne alcuni. Per questo motivo il comparto ha avuto una performance migliore di altri. Ciò nonostante, in un contesto come l’attuale, anche le biotecnologie italiane hanno sopportato in questi ultimi mesi il peso della difficile congiuntura economica internazionale. Le imprese hanno reagito in maniera diversa: le realtà di servizio e quelle che hanno prodotti sul mercato hanno manifestato difficoltà tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009. Per tali imprese è stato certamente utile il fondo di garanzia di 1,3 miliardi di Euro per i prestiti alle PMI, varato dal Governo a marzo 2009. Le imprese di prodotto, invece, si sono confrontate, e si confrontano tutt’ora, con la diminuzione della disponibilità ad investire da parte del Venture Capital, che ha generato in alcune realtà meno capitalizzate situazioni di acuta difficoltà”. Di qui le ben note ristrutturazioni, riduzioni degli organici e operazioni straordinarie, che pure hanno consentito la sostanziale tenuta di queste strutture, in attesa del momento della ripresa. Le minacce maggiori riguardano invece le realtà piccole e piccolissime, per le quali la carenza di capitali rischia di essere negativamente decisiva nel prossimo futuro. In questo contesto è prioritario che il Governo delinei una politica di investimenti in ricerca e innovazione. Assobiotec si sta impegnando da tempo su due iniziative che servirebbero a rilanciare lo sviluppo del settore in Italia e a favorirne il consolidamento: l’adozione dello status della Piccola Impresa Innovativa (PII) e la creazione di un fondo di investimento per il biotech. “Per quanto riguarda la PII – sottolinea ancora Sidoli – proponiamo di riservare a questa tipologia di impresa, costituita da PMI che investono in R&S più del 30% del totale dei costi aziendali e che hanno un numero di addetti dedicato alla R&S superiore al 30% del totale, alcune agevolazioni fiscali specifiche, come ad esempio il credito d’imposta alla ricerca in quota significativa e per un periodo temporale adeguato, e la riduzione temporanea dei contributi per l’assunzione di personale R&S. Anche una seconda misura è strategica: la costituzione di un fondo per il biotech, che potrebbe permettere alle realtà altamente promettenti di continuare il proprio sviluppo competitivo, avendo la possibilità di accedere ad adeguate risorse finanziarie. L’iniziativa dovrebbe coinvolgere soggetti privati, sia finanziari che industriali, con il supporto di misure atte a favorire l’investimento ad alto rischio, che è tipico del settore. A ciò andrebbero affiancate iniziative mirate a favorire la collaborazione e l’integrazione pubblico-privato, e a incentivare la creazione di proprietà intellettuale”. In sintesi, occorrono fondi pubblici e privati per la ricerca biotech, uniti alla semplificazione della burocrazia e ad una maggiore chiarezza ed omogeneità delle regole: tutti fattori che permetterebbero di operare in un sistema trasparente e prevedibile. In un quadro così composto, l’Italia potrebbe generare importanti ricadute in termini di nuove imprese, posti di lavoro e disponibilità di prodotti e tecnologie innovative.

 

I trasferimenti tecnologici

Sotto l’aspetto dell’attività di ricerca e di investimenti nell’acquisizione di nuovi brevetti, Sidoli evidenzia alcune indicazioni: “con la nascita e la diffusione anche in Italia dei TTO (Technology Transfer Offices), che negli ultimi cinque anni sono aumentati del 50%, si è assistito alla creazione di numerosi spin-off accademici, frutto della valorizzazione della proprietà intellettuale. In questo contesto fino al 2009 si è registrato un aumento significativo dei depositi e delle concessioni di brevetti internazionali, oltre che l’aumento di accordi generati dagli spin-off accademici. Purtroppo i recenti tagli alle università hanno determinato, dall’inizio del 2010, un drastico ridimensionamento del personale universitario precario, andando a colpire in prima linea il personale appena formato nei TTO. Da un’anteprima delle statistiche EPO – European Patent Office – relativa al deposito di brevetti nel 2010, emerge che l’Italia, in generale, e non solo nel settore biotech, ha subito un sostanziale calo delle domande. Al contrario, paesi come la Germania registrano andamenti stabili”. Gli operatori del settore ritengono che, nel contesto economico globale, la sfida del comparto sia di aumentare significativamente la propria competitività. E in molti pensano che, purtroppo, il nostro Governo non sia di supporto, come invece avviene in contesti a noi vicini, come Germania o Francia. “Affinché l’industria biotecnologica italiana si consolidi – chiarisce ancora Sidoli – è più che mai strategico creare un ambiente funzionale allo sviluppo delle imprese innovatrici: in quest’ottica è vitale intervenire su una fiscalità favorevole alla crescita e allo sviluppo aziendale, in cui sia gli investitori che le aziende possano sentirsi liberi d’investire. La concessione di incentivi fiscali per la R&S rappresenta, perciò, una strategia che può stimolare efficientemente l’investimento in aziende di R&S senza creare distorsioni di mercato”.