Questo il commento sulle vicende al vertice delle Generali pubblicato da Tito Boeri su la Voce.it

Abbiamo scritto su questo sito di Cesare Geronzi quando nessuno osava parlare di lui. Oggi che tutti tracciano profili biografici del personaggio – omettendo, ad eccezione del Financial Times, trascorsi giudiziari e procedimenti pendenti – vogliamo invece guardare avanti, occuparci del dopo Geronzi. Vorremmo poter scrivere che d’ora in poi ci sarà una sanzione sociale per chi viola le regole, che la reputazione conterà nella corporate governance in Italia. Purtroppo non è così. I trascorsi di Geronzi non hanno giocato alcun ruolo nella sua uscita di scena.

A voltargli le spalle sono stati gli stessi che gli avevano permesso per anni di concentrare su di sé un potere immenso, guidando banche nonostante avesse subito un’interdizione giudiziaria temporanea dall’attività bancaria a opera del Gip di Bologna in relazione all’inchiesta sul crac Parmalat, fosse indagato per il crac della Cirio, per il caso Parmalat-Ciappazzi e per la vicenda Eurolat, con un rinvio a giudizio con l’accusa di concorso in bancarotta e usura, avesse già subito una condanna in primo grado per concorso in bancarotta nel caso Italcase Bagaglino a un anno e otto mesi di reclusione e fosse stato dichiarato temporaneamente inabile all’impresa commerciale e agli uffici direttivi. Vorremmo poter scrivere che d’ora in poi si allenterà la stretta della politica sulla corporate governance. Purtroppo non è affatto detto che sia così. L’uscita di scena di Geronzi coincide con il cambiamento dello statuto della Cassa depositi e prestiti, volto a permettere interventi su società quotate e non solo su piccole imprese. È possibile che si tratti della solita boutade di Tremonti, per intenderci un’altra Banca del Sud su cui guadagnarsi qualche titolo di giornale e nascondere il proprio immobilismo in un paese impaludato. Ma c’è anche il rischio che il fondo strategico sia il preludio di un rinnovato ruolo dello stato nell’economia, magari sempre attraverso Mediobanca. Più che l’operazione Cdp in quanto tale, ciò che preoccupa è mancanza oggi in Italia di una cultura politica che sappia porre un argine a un governo che voglia tornare ad essere protagonista dei cambiamenti nella struttura proprietaria delle grandi aziende. Vorremmo poter scrivere che ha vinto l’internazionalizzazione sugli intrecci tra politica e finanza. Geronzi è stato l’incarnazione delle ingerenze della politica nella finanza, che permettono ad aziende strutturalmente in perdita di sopravvivere creando attorno a loro un ampio consenso politico. Prodotto e insieme artefice della cosiddetta “finanza romana” è riuscito anche per qualche tempo a proporsi come il centro di gravità della finanza del Nord. Ma i vincitori nello scontro di potere sembrano ancora tutti appartenere al capitalismo relazionale italiano: si passa solo da una costellazione all’altra. Nuovi giochi di palazzo al posto dei vecchi. Ritorna in gioco Unicredit che, con Profumo, si era tirata fuori da Mediobanca e Generali.

E ritorna in gioco Mediobanca. Vorremmo poter scrivere, come qualcuno ha fatto, che è una vittoria degli amministratori indipendenti. Lo è solo in parte: si è trattato di minoranze organizzate, dipendenti da altri o “indipendenti di maggioranza”, l’ossimoro che gira in molti consigli, piuttosto che espressione di investitori istituzionali e piccoli azionisti. Non è dunque l’inizio di un nuovo capitalismo, né il primo passo verso il decollo delle public company in italia. Quello che accadrà ora è molto legato agli sviluppi in Mediobanca e Unicredit, dunque alle Fondazioni bancarie. Conta poco chi sostituirà Geronzi, soprattutto dopo che la scelta è ricaduta su Gabriele Galateri di Genola. Speriamo solo che un management più giovane, voglia, come ha dichiarato di voler fare, allentare il blocco dei patti di sindacato, semplificando e rendendo più trasparente la struttura di controllo delle società quotate, a partire da Mediobanca. Sempre che la Consob non si metta di mezzo. Sconcertante che il suo nuovo presidente dichiari di voler fare di tutto per diminuire la contendibilità delle società quotate, “proteggendo le imprese e non gli investitori”. Vegas ha votato la fiducia a Berlusconi dopo essere stato nominato ai vertici della Consob. Oggi sembra il miglior interprete del capitalismo all’italiana: capitalisti che non vogliono metterci i capitali, persone che vogliono controllare senza investire.