Rilevamento di partecipazioni in aziende pubbliche e private e acquisizione di porzioni crescenti del debito pubblico degli Stati: è sempre più stretta l’interdipendenza tra Pechino e i Paesi europei. E l’Italia è strategica per entrare nel mercato unico Ue

Acquisizione di prestigiosi marchi europei e rilevamento di quote crescenti del debito pubblico dei Paesi in difficoltà di bilancio. Questi i capisaldi della strategia economica adottata da Pechino nei confronti di un’Europa che, alle prese con le difficoltà della crescita, sempre più vede negli ingenti capitali a disposizione del Dragone una buona, e soprattutto praticabile, alternativa per le proprie esigenze di finanziamento. Come fa notare Giampietro Garioni su East, il periodico del Gruppo Unicredit dedicato ai temi dell’economia e delle strategie politiche del Medio Oriente e del Sud Est asiatico, “i termini dei rapporti economici tra la Cina e le economie del Vecchio Continente da qualche tempo si sono invertiti: non siamo più noi europei che guardiamo alla Cina come un Paese ricco di opportunità e mercato di sbocco dei nostri investimenti, ma è Pechino che, al contrario, sta investendo in Europa, con il preciso obiettivo di creare un terreno favorevole allo sviluppo della propria strategia di espansione sui mercati globali”.

Il metodo di attuazione del piano segue un iter riconoscibile, del tutto analogo a quanto, negli anni scorsi, Pechino ha già sperimentato con alcuni Stati dell’Africa orientale ricchi di materie prime, indispensabili a un’economia il cui attivo commerciale con l’estero, ad aprile, ammontava a 11,4 miliardi di dollari: finanziamento per la costruzione di infrastrutture utili al transito delle merci cinesi, apertura di banche e istituti finanziari a sostegno delle imprese nazionali che sono operative in loco e sviluppo di programmi sociali che favoriscano l’immigrazione di popolazione cinese. Peculiarità dell’Europa rispetto alle “prede” africane, poi, è quella per cui il governo di Pechino, tramite fondi sovrani, è spesso detentore di quote significative dei debiti pubblici nazionali. Il fenomeno coinvolge anche l’Italia, se è vero che, come sostiene Alberto Forchielli, presidente del centro studi Osservatorio Asia, “oggi i cinesi hanno in mano circa il 13% del debito pubblico italiano, per un totale di 230 miliardi di euro spalmati in Btp, Cct e Bot”, e consiste essenzialmente in partecipazioni concentrate nel debito dei Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna), così da arrivare alla cifra complessiva di 2.850 miliardi delle riserve valutarie nazionali investite in euro.

“L‘euro e i mercati finanziari europei sono e rimarranno uno dei settori di investimento più importanti per le riserve cinesi in valuta estera; in particolare, in un’ottica di diversificazione del nostro portafoglio, laddove lo yuan non ha ancora tutte le credenziali utili a diventare una moneta di scambio internazionale ma preferisce evitare un eccessivo attaccamento al dollaro” ha affermato qualche tempo fa Gang Yi, vicepresidente della Banca popolare cinese. Il trend, inoltre, sembra destinato a durare, soprattutto se si considera che i nuovi oligarchi cinesi, per sfuggire alla stretta sui tassi di interesse e ai limiti posti al credito da parte della China Banking Regulatory Commission in funzione anti inflazionistica, guardano sempre più alle attività all’estero come fonte per i propri guadagni.

D’altro canto, è l’economia reale quella che più interessa al Dragone, perché è nel rapporto pacifico e continuativo con il territorio che può portare avanti l’espansione “del soft power” e della politica dello “zero problemi con i vicini”.

 

Gli investimenti cinesi in Europa

 

Passando brevemente in rassegna le principali operazioni concluse da Pechino, quasi sempre tramite società pubbliche meglio controllabili, con i governi e le imprese europei, si deve ricordare che in Grecia la Cina ha ottenuto la concessione del porto del Pireo per 35 anni e la creazione di un fondo di 3,6 miliardi di euro per finanziare l’acquisto di navi cinesi da parte delle compagnie marittime elleniche. Salendo più a nord, nei Balcani, in Croazia le trattative tra i due governi riguardano la costruzione di porti (e l’amministrazione da parte della statale Cosco del porto di Fiume), aeroporti e linee ferroviarie. Una situazione analoga vige nell’Est Europa, che la dirigenza del partito comunista, in particolare, considera strategico per l’accesso al mercato unico dell’Ue. Ancora, nel 2009 l’azienda automobilistica Geely ha rilevato dalla Ford la proprietà di Volvo, e altrettanti investimenti e joint venture sono stati avviati con imprese della Germania, del Regno Unito e della Francia (rispetto a quest’ultima, è di qualche mese fa la sigla di un accordo tra il colosso transalpino dell’energia nucleare Areva e la cinese Cngpc per l’approvvigionamento di 3,5 miliardi di dollari di uranio). Infine, il settore bancario, che con la Icbc (Industrial and commercial bank of China), il più grande istituto al mondo per totale dell’attivo, apre una dopo l’altra filiali a Londra, Mosca, Francoforte, Amsterdam, Madrid, Parigi, Bruxelles e Milano. Dulcis in fundo, infatti, c’è proprio il Bel Paese.

 

Serve l’Italia per nobilitare il made in China?

 

Stando ai dati forniti dall’Ice, alla fine del 2010 erano 60 le società italiane a capitale cinese presenti dentro i confini nazionali, la maggior parte di cui localizzate in Lombardia. Per quanto riguarda l’approccio all’imprenditoria nostrana, in particolare, il modus operandi del Dragone sembra rispondere a un’esigenza precisa: creare una piazza commerciale utile a fornire alle imprese cinese le risorse e il know how necessari ad aumentare il valore aggiunto delle proprie produzioni. “Le medie imprese cinesi, attirate dalla qualità e dalla fama dei brand made in Italy, vedono nell’acquisizione delle risorse possedute dagli italiani una modalità di crescita rapida, in grado di affrancarle dall’immagine internazionale di produttori low cost. Inoltre, la vasta presenza in Italia di imprese target di dimensioni contenute e, quindi, finanziariamente accessibili, potrebbe risultare un buon sistema per entrare nei più estesi mercati europei” spiega Garioni. Di certo, ci sono anche queste motivazioni dietro la firma, nello scorso mese di ottobre, di accordi commerciali tra Roma e Pechino per 2,5 miliardi di dollari.