In Italia comincia a crescere il dibattito sul ruolo delle casse previdenziali e dell’Inps per tutti coloro che hanno una partita Iva …

e che svolgono attività professionale attraverso gli ordini oppure in maniera non regolamentata. Sono almeno due milioni di cittadini liberi professionisti su cui grava una calo delle rendite pensionistiche. Un problema che i giovani professionisti dovranno presto affrontare, anche dal punto di vista della rappresentatività politica, pena la loro ulteriore marginalizzazione.

 

I giovani professionisti sono in allarme. Vivono un presente carico di incognite in quanto ad affidabilità del reddito e a continuità di prestazioni. E presagiscono un futuro dalle speranze più magre. Le pensioni dei titolari di partita Iva iscritti alle casse previdenziali o all’Inps sanno che gli assegni previdenziali saranno bassi, al limite della sopravvivenza. E devono correre ai ripari. Dal punto di vista politico non sono rappresentati degnamente, se non per iniziativa di alcune lodevoli realtà come il Cup, il Comitato unitario delle Professioni. Ma di fatto i giovani professionisti e autonomi non sono legati da forti vincoli sindacali e non hanno potere contrattuale. In Italia i liberi professionisti sono circa 2 milioni di individui, raggruppati in una trentina tra ordini e albi. Ma fuori da questa fortezza difensiva c’è un mare magnum, rappresentato da autonomi e professionisti di attività non regolamentate. Ciò si traduce in maggiore precarietà, assenza di tutele, mancanza di una cassa previdenziale autonoma, inconsistenza di rappresentanza politica e sociale. Per questa ragione alcune figure professionali come i consulenti del lavoro, i traduttori, i web designer e altre stanno cercando di darsi una struttura e un codice identitario. In parte questa missione è svolta dall’Acta, l’associazione delle professioni legate al terziario avanzato. Ma nel pentolone degli autonomi e delle partite Iva c’è un ribollire di iniziative e di richieste. Nel corso degli ultimi due anni, al Ministero dello sviluppo economico sono state depositate una quarantina di richieste perché vengano riconosciuti altrettanti ordini e albi. Vi si trovano figure che potrebbero essere raggruppate in un’unica realtà professionale. Così, ad esempio, l’assistente di uno studio medico potrebbe optare per l’iscrizione all’albo degli infermieri professionali – ancora ipotetico visto che la sua costituzione non è ancora stata formulata – oppure a quello degli assistenti alla poltrona o degli igienisti dentali se per caso la prestazione è effettuata all’interno di studi dentistici.

 

Libertà o numero chiuso?

La proliferazione degli ordini e degli albi è frutto e conseguenza di una visione liberale dell’economia e del lavoro, ma paradossalmente viene contrastata proprio da coloro che, invece, sono già iscritti e tutelati all’interno di ordini costituiti. Secondo una ricerca di mercato effettuata da Aaster, “il 52% degli iscritti agli ordini difende il numero chiuso e chiede l’accesso contingentato”. Ma il vero problema è un altro: il calo del lavoro, dei clienti e del giro d’affari. Mediamente ogni studio professionale, a seguito della crisi del biennio 2008-2009 ha visto calare del 30% il suo parco clienti e conseguentemente il reddito. Più penalizzati i giovani professionisti: ingegneri e architetti con meno di 35 anni lavorano in prevalenza con contratti di consulenza monocommittente: “è un lavoro precario travestito da professione”, dicono dall’Ires, un altro centro studi, agganciato alla Cgil. Per il sociologo Aldo Bonomi, che di Aaster è l’animatore, “le categorie professionali mostrano oggi un elevato grado di incertezza, sul presente e sul futuro”. Il libero professionista ha una cultura che si sovrappone per molti aspetti alla mentalità imprenditoriale, ma di fatto si trova a confrontarsi con necessità “laburiste”. Il 48% dei professionisti ha infatti sottoscritto una polizza contro la malattia, gli infortuni e l’invalidità perché, in caso di assenza dall’ufficio possa essere salvaguardato un certo livello di reddito. Ma in questa quasi metà di professionisti che in un certo senso corre ai ripari sono del tutto assenti i giovani, per i quali si prepara un assegno pensionistico che sarà pari ad una quota percentuale compresa fra il 25 e il 40% al massimo del loro reddito medio, proiettato a fine carriera. Per coloro che oggi hanno un reddito medio annuo di 20 mila euro la pensione potrebbe aggirarsi sui 5 – 6 mila euro all’anno netti, che vuol dire 500 euro al mese. Da qui una serie di riflessioni. Secondo una stima di Ania, la associazione delle imprese di assicurazione, “solo il 27% dei professionisti ricorre oggi a formule di polizze vita finalizzate ad ottenere anche una rendita vitalizia”. Una percentuale che sembra essere destinata a salire, se però saliranno i redditi dei professionisti. Infatti, ribadisce l’Ires, “circa il 70% dei liberi professionisti dichiara oggi mediamente un reddito di 15 mila euro all’anno”.

 

I fattori demografici

Qualcuno parla di professionisti-massa, di precari con la partita IVA, per i quali la copertura previdenziale integrativa appare oggi ancora come un miraggio. Anche per Alberto Brambilla, economista docente all’Università di Castellanza e presidente del comitato scientifico di Itinerari Previdenziali, “occorre che i nuovi professionisti giovani puntino sulla forza della loro rappresentatività, sia nei confronti della società, sia nei confronti della politica”. Sullo sfondo, infatti, il cambiamento demografico è consistente e i giovani avranno meno potere in futuro. Sulla base delle stime previsionali effettuate dall’istituto Dondena dell’Università Bocconi di Milano, “nel 1950 la quota di italiani con età compresa fra i 50 e gli 80 anni era del 24%, ma salirà al 49% nel 2050. Coloro che avevano più di 80 anni nel 1950 erano si e no l’1% dell’intera popolazione, saliranno all’11% nel 2050”. E’ ovvio che in questo scenario la forza relativa delle nuove generazioni diminuirà. E siccome le pensioni saranno calcolate sulla base del regime contributivo e non più su quello retributivo, la cultura della responsabilità previdenziale dovrà essere maggiormente allargata. E non solo. Anche gli aspetti assistenziali dovranno essere seguiti di più. Oggi la pensione degli anziani serve non tanto e non solo per mantenere il vitto e l’alloggio e la dignità della vita: sempre più persone hanno bisogno di assistenza professionale perché aumentano i casi di pazienti diabetici e cardiopatici. L’innalzamento della durata media della vita può parallelamente aumentare il periodo di disagi e anche questo deve essere considerato. “Per questa ragione – sottolinea Walter Anedda, presidente della Cassa previdenziale dei dottori commercialisti – dobbiamo guardare con più attenzione alla voce assistenza. La previdenza da sola non basta più. Occorre progettare nuove soluzioni che tengano conto dei bisogni emergenti e crescenti”. Questa dinamica avrà sicuramente impatti sulla politica contributiva delle professioni per il mantenimento delle casse autonome, ma anche sulla gestione delle attività dei fondi pensione che sono ad esse collegati. Alcuni organi previdenziali hanno da sempre puntato sul patrimonio immobiliare per assicurarsi rendite con cui pagare le pensioni. Anche questa struttura dovrà essere modificata perché in molti casi la rendita media derivante dagli affitti non supera il 2 – 3% del valore patrimoniale stesso. A questi livelli, con la crescita del numero dei pensionati e con il minore carico contributivo dei giovani, il tiraggio rischia di saltare. Enasarco e altri istituti hanno deciso di collocare sul mercato parte del loro patrimonio immobiliare, con cui fare cassa. In tal modo si andrebbero a riossigenare le riserve matematiche e la gestione può guardare al futuro con più serenità. In questo contesto i giovani professionisti potrebbero essere chiamati a corrispondere quote percentualmente maggiori di reddito per le finalità previdenziali e assistenziali.

 

Puntare sulla crescita economica

In caso di ripresa economica e di crescita dei redditi questi effetti potranno essere tranquillamente assorbiti, ma non sarà così se la ripresa langue o se, peggio, si decresce. Si tenga presente che il sistema previdenziale italiano, pubblico e privato insieme, è in grado di tenere se l’economia italiana cresce di almeno un punto e mezzo percentuale all’anno. Ma per quote di crescita di Pil inferiore il sistema potrebbe subire contraccolpi indesiderati, perché si metterebbe meno fieno in cascina a fronte di esborsi previdenziali in crescita. Nel corso del 2009 l’economia italiano ha perduto colpi per la crisi, con un Pil che si è indebolito di quasi 5 punti percentuali. Nel 2010 la crescita (ma si tratta solo di un recupero) è stata dell’1%. Su tale livello è destinata a mantenersi la crescita nel 2011 e nel 2012. “Per tornare ai livelli di ricchezza pre-crisi – dice l’economista Mario Deaglio – bisognerà aspettare almeno il 2015”. Intanto l’inflazione comincia a crescere ad almeno il 2,5% all’anno erodendo una parte del potere d’acquisto, dei redditi e delle pensioni. C’è da pensare seriamente al da farsi e a come ripensare e riformulare non tanto e non solo l’aspetto pensionistico, ma anche il patto tra le generazioni. Perché altrimenti il futuro dei giovani – lavoratori come professionisti – potrebbe essere ancora più incerto di quanto non sia il presente, già diffusamente precario.