Nonostante l’avvio della fase di inversione ciclica, il nostro Paese mostra una crescita debole, inferiore a quella di altre economie avanzate, e connotata da numerosi elementi di fragilità.

Le tensioni geo-politiche nell’area nord-africana e gli eventi che hanno funestato il Giappone rendono ancora più incerto il quadro congiunturale. La crisi del debito sovrano in alcuni paesi periferici dell’area euro e la bolla nelle quotazioni delle materie prime minano ulteriormente le prospettive di crescita. Il sistema bancario italiano rimane tuttavia solido; le famiglie mantengono livelli di indebitamento più bassi rispetto a quelli di altri paesi industrializzati e la situazione dei conti pubblici beneficerà delle manovre di contenimento della spesa. Esistono i presupposti affinché l’Italia riprenda a crescere. L’impulso allo sviluppo non potrà più venire dalla spesa pubblica ma dal risparmio privato, dal dinamismo imprenditoriale, dalla valorizzazione dei talenti e delle eccellenze dei nostri giovani e dagli investimenti in ricerca e sviluppo. Nel nostro Paese vi sono numerose imprese che rifuggendo le sirene dei sussidi pubblici sono diventate, solo con le proprie forze, leader mondiali nei loro settori. Esse costituiscono un esempio importante per tutte le altre. Occorre rimuovere gli elementi di frizione e le strozzature che impediscono al nostro paese di utilizzare al meglio le risorse disponibili: l’elevato debito pubblico, le imperfezioni nei mercati del lavoro e dei prodotti, le carenze nei settori dell’istruzione e della ricerca e l’illegalità diffusa in ampie aree del territorio sono solo alcuni dei problemi con i quali oggi ci confrontiamo, ai quali si aggiungono fattori che rendono il nostro paese poco attraente anche per gli investitori esteri, come un’eccessiva lentezza della giustizia civile e un contesto legale fatto da troppe norme. La produzione legislativa si è oramai attestata attorno alle 15 mila pagine annue: chilometri di leggi che creano lavoro solo per la professione forense e per i Tribunali. In questo quadro la regolamentazione primaria e secondaria sui mercati finanziari sfiora le 700 pagine. Individuare gli ostacoli alla crescita è il primo passo per definire una linea d’azione per il futuro, ma non basta: occorre un approccio trasversale che mobiliti tutti i protagonisti del sistema economico e finanziario verso il fine ultimo di creare sviluppo. Per questo vanno coordinati gli interventi pubblici e le iniziative del settore privato, al fine di rendere socialmente accettabile l’inevitabile trade-off fra sviluppo ed equità, fra efficienza e protezione dei soggetti più deboli. In questo contesto la tutela del risparmio costituisce uno snodo decisivo per assicurare che i redditi da capitale, integrando i redditi da lavoro e da pensione, svolgano la funzione di una sorta di “ammortizzatore sociale privato” supplendo, in una fase di crisi come quella attuale, alle carenze del sistema di welfare pubblico. Il risparmio svolge anche una indispensabile funzione ai fini dello sviluppo: esso costituisce infatti un ponte tra generazioni, poiché i suoi frutti possono contribuire ad assicurare ai giovani un futuro meno incerto di quello che adesso si prospetta loro.

 

La tutela dei risparmiatori e lo sviluppo della Borsa

Il nostro mercato azionario continua tuttavia ad essere poco sviluppato e caratterizzato da assetti proprietari concentrati. Nel periodo 1998 – 2010 il numero di società controllate di diritto o di fatto è aumentato da 156 a 178, sebbene il peso in termini di capitalizzazione sia calato di 8 punti percentuali, mentre la quota media detenuta dal primo azionista è rimasta pressoché stabile, passando dal 47 al 45 per cento. Occorre riflettere sulle ragioni per cui nulla è cambiato negli assetti proprietari e di controllo nonostante il miglioramento del quadro normativo a tutela delle minoranze. Una prima ovvia spiegazione è legata al fatto che sin dal Dopoguerra l’Italia è stata caratterizzata da un sistema di proprietà fondato su Famiglia e Stato, nel quale le imprese hanno faticato ad arrivare in Borsa, mentre le società di grandi dimensioni si sono avvalse di forme di controllo basate su gruppi piramidali o di voto, che le hanno rese scarsamente contendibili riducendo la propensione dei risparmiatori verso l’investimento azionario. E’ dunque tempo di un nuovo approccio culturale, che superi quello in base al quale è meglio disporre di una solida quota di controllo in un’impresa che, per questo motivo, è costretta al nanismo, piuttosto che mantenere una partecipazione, magari più risicata, in un’impresa che cresce ed è in grado di aggredire i mercati mondiali.

 

*Giuseppe Vegas – Presidente Consob