Abbiamo chiesto al professor Camisani Calzolari, docente dello Iulm e Ceo di Speakage, come le aziende devono ripensare la strategia di comunicazione nell’era di Facebook e Twitter

Incontriamo Marco Camisani Calzolari nella sede milanese della sua azienda, vicino al tribunale più famoso d’Italia. All’ingresso una collezione di reperti archeologici della prima era del personal computer, dal Commore Pet al Macintosh, e sulla parete una scena gigante di Asteroid. Perché per innovare bisogna ricordare da dove siamo partiti. Il professore del resto vive per sua stessa ammissione immerso nel nuovo, che mette ordine alla sua vita e rende efficiente la sua eclettica attività quotidiana. Ciò che fa dipende strettamente dalla sua curiosità continua nello sperimentare direttamente ogni nuovo strumento o trend tecnologico offerto dalla rete.

 

Qual è l’errore più comune delle aziende che oggi vogliono costruire un rapporto con i propri utenti attraverso Web e social network?
Spesso le aziende, consapevolmente o senza curarsi troppo del problema, comprano utenti. Ci sono numerose società specializzate che attraverso trucchetti di ingegneria sociale o furbe soluzioni tecniche ottengono fan, like, traffico e utenti sostanzialmente finti, per poi venderli a chiunque lo richieda. Questo avviene perché se il Ceo vuole risultati e li misura attraverso metriche che non conosce, darà valore a numeri che in realtà non hanno importanza in sé. Poi ci sono manager che per effetto della crisi hanno orizzonti a breve termine e pochissimo budget, quindi preferiranno simili scorciatoie a percorsi più lenti e difficili. In realtà la comunicazione digitale è come il mattone: premia a medio-lungo termine.

 

Oggi sulle opinioni ricavate da social network e analizzate con strumenti semantici si può decidere la strategia di una grande azienda. Non si rischia di dare troppa importanza alle opinioni di chi scrive sul Web, che comunque rappresenta un campione non necessariamente rappresentativo della totalità dei consumatori?
Piuttosto che non fare nulla e non sentire le voci provenienti dalla rete, è un rischio che vale la pena di correre. In aziende piccole manager ben integrati con le community digitali posseggono strumenti in grado di mantenerli in contatto con con 10 o 20 mila persone per monitorare la propria reputazione. Quando la dimensione aziendale cresce e questo non è più possibile, seguendo le indicazioni di strumenti avanzati si ottiene comunque un pezzettino del mosaico. Il problema è che a causa del digitale è tutto molto più complesso. Non a caso i piccoli crescono più velocemente, perché le attività che bisogna svolgere e i sensori che è necessario attivare per una grande realtà sono talmente tanti e pervasivi in tutti i processi dell’azienda, che è sempre più difficile ottenere risultati a livello avanzato. Poi chi deve agire sulla base di opinioni è bene che ricordi che non sempre la gente sa quello che vuole. Mi piace citare Sir William Preece, ingegnere capo delle Poste Britanniche, che dichiarava nel 1876 che gli Inglesi non avrebbero mai avuto bisogno del telefono avendo postini a sufficienza, oppure Henry Ford che disse “Se avessi chiesto alla gente cosa avrebbe voluto che inventassi, mi avrebbero risposto cavalli più veloci”. Ma poter affrontare l’argomento in questi termini già sarebbe molto bello. La realtà è ben diversa. Per fare un esempio, c’è un noto network televisivo via satellite che nella sua applicazione mobile per guardare la televisione non distingue tra utenti con nomi maschili o femminili, piazzando ben in vista la scritta “benvenuto” accanto al tuo nome anche se sa che ti chiami Carolina.
Quasi certamente la stessa azienda nelle sue normali azioni di marketing tiene moltissimo alla profilazione, svolgendo attività molto approfondite e costose in questo senso e tarando l’advertising in funzione del profilo degli utenti. Quando invece si esce da recinto del marketing tradizionale, pensato come vendita, push e advertising, ci si dimentica di questi principi fondamentali.

 

Come si fa a modulare gli investimenti It su social media per evitare di fare la fine della bolla di Second Life?
Il primo trucco è non farsi influenzare troppo dalle nuove mode digitali, quindi non esagerare. Poi bisogna porsi il problema del dopo, ovvero della proprietà dei dati degli utenti nel momento in cui il social media a cui ci si è affidati dovesse crollare o trasformarsi. Per cui è meglio spendere di più per costruire attività, legate allo specifico settore di riferimento, che parallelamente ai social media convincano gli utenti a iscriversi anche sul proprio sito, invogliandoli a vivere il prodotto a casa di chi lo fa.
Bisogna imparare ad avere rapporti con gli individui piuttosto che con gli strumenti. Parlare a ogni cliente come se fosse il cliente più importante del mondo, con i nuovi mezzi di comunicazione sul Web è possibile. Basta imparare a conversare in questo nuovo bar, con nuove regole, valide indipendentemente dal fatto che siano vestite da Pinterest, da Facebook o da Twitter. Oggi se chiedo aiuto a Telecom Italia su Twitter con l’hashtag corretto loro rispondono e ti fanno chiamare. Questo è l’approccio giusto.
Ovvio che richiede grandi cambiamenti anche nelle logiche interne alle aziende. Telecom per darmi quell’assistenza, anche se in via un po’ sperimentale, ha dovuto modificare elementi importanti della sua struttura. Ma ha fatto bene a farlo perché un utente scontento attivo su social network può essere molto pericoloso per un’azienda come Telecom. Già questo non significa più seguire le mode ma costruire in modo duraturo un rapporto corretto con l’utente moderno.
Il segreto in ogni caso è non dimenticarsi di curare il proprio luogo di riferimento, altrimenti tutte le attività di marketing, tutti gli utenti e tutto il valore finiscono ad altri. Ma come si fa a riportare in casa un utente che fa una domanda su Twitter? Costruendogli un ambiente più comodo possibile per ottenere ciò che vuole dal prodotto, come le ultime faq, gli aggiornamenti e una documentazione chiara, con interfacce pulite e usabili, in modo che l’utente che ha una necessità preferisca andare sulla pagina del produttore che su social media. Il problema è che realizzare un sito in grado di dare questo tipo di experience costa un mucchio di soldi ed è complicato, mentre operare su social media è molto economico.

 

Gli strumenti social e le logiche di collaborazione possono modificare la struttura di un’azienda, rimescolando ruoli e competenze. Quando veloce sarà questa trasformazione in Italia? Anche le piccole imprese ne saranno contagiate?
Ci arriveremo in tempi brevi, molto più velocemente rispetto ai grandi mutamenti che fino ad oggi hanno segnato le evoluzioni nel modo di lavorare delle aziende, ma molto più lentamente rispetto a quanto si potrebbe fare in presenza di una cultura più propensa al cambiamento della nostra.

 

Qualcuno pensa che l’Italia, partendo da una situazione più arretrata, possa aderire più in fretta di altri ai nuovi modelli di business
È un bel ragionamento, ma non ho speranze in questo senso. Non dimentichiamo che l’Italia non è solo Milano e i grandi centri urbani, comunque dominati da logiche più arretrate rispetto ad altri Paesi europei. All’estero si smaterializza con molta più naturalezza che da noi, e se ne percepiscono immediatamente i vantaggi. Molti anziani italiani non vanno online anche se è comodo, anche se risparmiano. Permane un pesante gap culturale, a cui hanno contribuito anche molti media tradizionali sui quali ancora oggi compaiono titoli catastrofisti sui danni di Facebook o i rischi dell’e-commerce.
Molti manager italiani mi mostrano il Blackberry come prova del loro essere “digitali”, ma quando chiedo loro per cosa lo usano, non si va oltre la posta elettronica e l’agenda, e di certo mentono quando dicono di servirsene per navigare, viste le ovvie limitazioni dello strumento. Molti vivono la dicotomia di parlare di digitale in azienda e operare quasi sempre in modo analogico. Ovvio che con le nuove generazioni le cose cambieranno, ma molto, troppo lentamente.
Nelle piccole imprese persino gli evidenti vantaggi della smaterializzazione sono percepiti pochissimo. Figuriamoci l’applicazione di logiche social per unire le forze e competere meglio, in un Paese in cui nello stesso settore il vicino è sempre il peggior nemico.
Quindi teme che perderemo questo treno. E come ci ritroveremo tra cinque anni in un mondo completamente cambiato?
Tra cinque anni saremo ancora noi, con la nostra identità unica e un po’ anomala. La strada per uscire da questa impasse forse ce la tracceranno i nuovi italiani, un po’ più cinesi, inglesi, americani o tedeschi. Il ragazzo cinese che mi porta a casa il sushi ha una tasca per ogni possibile resto. Provi a dare a un tassista italiano un biglietto da 100 euro… La contaminazione ci aiuterà.

 

Ma gli strumenti social e di decentralizzazione non potrebbero aiutare le imprese a valorizzare le risorse umane?
In azienda mancano spesso anche gli strumenti di collaborazione più banali. La mia piccola impresa ha un Cto a Londra, un Product manager che vive a Parigi, un ufficio di programmazione in Crimea e tutto funziona attraverso diversi tool di collaborazione, che sfruttiamo a seconda che ci serva video, voce o condivisione. Sfruttiamo ad esempio Google Hangouts per mantenere in collegamento video permanente i collaboratori e abbiamo uno strumento push-to-talk che mi permette da qualsiasi luogo e in qualsiasi momento col mio cellulare di essere ascoltato in tutte le nostre sedi decentrate contemporaneamente. In questo modo otteniamo un’efficienza molto maggiore di quella che avremmo se fossimo in un’azienda tradizionale tutti nella stessa stanza.
Se un imprenditore si spaventa ad avere due persone chiave dell’azienda che lavorano da casa, non potrà mai trarre beneficio dalle nuove logiche. Anche grandi aziende come Google e Microsoft offrono in realtà ai loro dipendenti molta meno libertà di quella che mostrano di facciata. Certo, nessuno in queste aziende ha un computer fisso sulla scrivania e i dipendenti sono incoraggiati ad andare dal parrucchiere al mattino perché la mail la controllano con lo smartphone, ma questo è vero più che altro per il top management, che spesso lavora quattordici ore e viene costantemente misurato per i risultati che consegue. Ai livelli inferiori questo non è applicabile, perché potrebbero passare tutto il giorno a giocare ad Angry Birds, oppure, come accade in Google, non ci sono orari ma le valutazioni del dipendente sono mensili e i parametri di performance richiesti sono elevatissimi.

 

Parlando di modalità di comunicazione delle aziende, le app e cloud potrebbero sostituire in parte il Web, seguendo parametri di ergonomia e logiche operative molto standardizzati. Non c’è rischio di un’eccessiva uniformità che spersonalizza le produzioni delle aziende?
Non lo vedo come un problema. La standardizzazione delle interfacce è una buona cosa. Quando quindici anni fa si sviluppavano siti senza alcun criterio, privi di concetti come header e barre a sinistra e on top, c’era molta più confusione. Del resto le automobili hanno mantenuto una certa personalizzazione, ma il modo di farle funzionare è più o meno lo stesso per tutte, e sarebbe un problema se non lo fosse. Cloud è una buzzword che capita di sentire a sproposito. I servizi via Web ci sono sempre stati, solo che oggi sono enormemente più diffusi. Se pensiamo a servizi come Dropbox o Google Doc, non ha nessuna importanza se alle spalle c’è un grosso server o un sistema distribuito in logica cloud.
Quello che è differente è ciò che si definisce Platform-as-a-service, che permette all’utente di personalizzare forse l’interfaccia, ma non di customizzare davvero il servizio erogato, che è uguale per tutti. Poi c’è il Software-as-a-service, di cui si occupa anche
Speakage, che vuol dire che le applicazioni sono cucite sulle esigenze del cliente e poi fornite come servizio completo.

 

Questo riuscite a farlo perché avete la dimensione giusta, poiché aziende più grandi faranno fatica a offrire servizi così personalizzabili
Vero, e quelle più piccole mettono insieme pezzi senza garantire il risultato. Speakage fattura circa un milione di euro, e il nostro solo problema è che la quantità di prodotti che abbiamo all’interno non è adeguatamente valorizzata per la mancanza di un valido partner industriale con capacità di relazione e vendita. Ma ci stiamo lavorando. L’applicazione iAtm è il frutto di un benchmark tra le migliori applicazioni del mondo nel trasporto pubblico, non perché siamo bravi ma perché è così che l’abbiamo sviluppata. Con una struttura commerciale adeguata potremmo agevolmente venderla in tutto il mondo.
Naturalmente un eventuale partner dovrebbe essere importante, come una Telco internazionale. Purtroppo le Telco vincono le gare ma poi non necessariamente danno in subappalto ad aziende come Speakage, perché sono soffocate dalla burocrazia interna, e spesso mettono insieme accrocchi acquistando prodotti a basso budget.

 

Lei ha avviato due attività imprenditoriali, una in Italia e una a Londra. Quella in Italia, Speakage, si rivolge solo alle aziende, mentre quella in Inghilterra, Digitalground, si rapporta direttamente con gli utenti. Ritiene che i consumatori inglesi siano più maturi dei nostri?
Poteva essere Londra come ogni altro luogo. Il successo dei nostri prodotti Web è legato a caratteristiche vissute solo online, per cui abbiamo potuto scegliere. Sicuramente oggi per avviare un’azienda vera è meglio farlo dove si possono avere più risorse e più scambi. E per capire dove l’industria dell’It funziona meglio basta guardare il suo impatto sul Pil. In Inghilterra, che a parte Londra è assai meno tecnologica di quanto si potrebbe pensare, il digitale vale il 7% del Pil, in Italia restiamo sotto il 2%, ottenuto quasi esclusivamente dalle grandi aziende di telecomunicazioni.



Ma in un futuro non troppo lontano questo divario non potrebbe ridursi?
Il fiume va e inevitabilmente la sua portata aumenta, ma l’ambiente qui è oggettivamente complicato. I programmatori della mia azienda italiana in gran parte sono in un ufficio in Crimea, perché qui impieghiamo sei mesi per trovare un Project manager. Manca la cultura e mancano le competenze e quelle che ci sono vanno all’estero. La maggior parte delle aziende che in Italia operano nel digitale è priva di un top management che conosca l’argomento. Per la maggior parte sono uomini di finanza.
Operiamo in un contesto in cui la consapevolezza del ruolo fondamentale del digitale non è ancora diffusa e siccome le persone non cambiano con la facilità con cui si sostituisce un sistema operativo, non mi aspetto cambiamenti in tempi brevi.

 

Cinque anni fa la sua azienda ha realizzato anche il sito forzasilvio.it dei sostenitori di Berlusconi. Cosa avete imparato sulla comunicazione da quell’esperienza?
Abbiamo imparato moltissimo, anche se per quel sito noi non siamo stati che esecutori della piattaforma tecnica. Di certo siti di questo genere sono strumenti potenti, che si prestano a interessanti operazioni di inserimento di contenuti che cambiano in funzione della profilazione degli utenti. Si tratta di una soluzione molto innovativa che rispecchia le attuali tendenze, ed è un peccato che la figura ingombrante di Berlusconi abbia impedito anche ad altri di soffermarsi sui vantaggi della tecnologia adottata. Sicuramente anche i suoi avversari ne avrebbero potuto trarre grande vantaggio.
Oggi di siti così non ce ne sono. I politici preferiscono non occuparsi dei siti personali per essere presenti più che altro sui social network.

 

Quindi perdono molti dei vantaggi di avere un database di utenti ed efficaci analisi dei dati
Certo, il sito di Berlusconi ha 250 mila iscritti sui quali possono ottenere numerosissime informazioni che si arricchiscono in continuazione. Un bacino preziosissimo per ogni attività anche futura, solo invisibile ai non iscritti, quindi non se ne parla.

 

Cosa ne pensa della situazione politica attuale? Lo sviluppo dell’Agenda digitale e degli open data vi porterà vantaggi come piccola azienda innovativa?
Sono molto contento del Governo Monti, mi sembra un notevole passo avanti rispetto al passato. Per quanto riguarda gli open data, per come li concepisco io, i vantaggi ci sarebbero. Bisogna vedere se non si cade sulla fase attuativa. Prima o poi comunque molte aziende dovranno condividere i propri dati e allora ci saranno vantaggi per tutti, soprattutto nella Pa. Certo il governo sta agendo bene, tanto che sta influenzando tutti gli altri. Un anno fa insieme ad altri cento imprenditori abbiamo comprato una pagina sul Corriere per sensibilizzare su questo tema e oggi ci sembra di essere stati ascoltati.
Certo dipenderà da come si fanno le cose. Il rischio è che si sprechino investimenti per un inutile cloud italiano, centralizzato e statale mentre il resto del mondo usa tranquillamente Amazon.