Cloud e virtualizzazione tornano a centralizzare le risorse di storage ed elaborazione. Ogni device mobile che si aggiunge e ogni azione sulla nuvola fa crescere immense strutture con notevole impatto ambientale. Un’inchiesta del NYT fa luce sul fenomeno

Cosa succede quando spediamo una email contenente degli allegati da centinaia di megabytes? E come fa Facebook a ospitare comunità vocianti e attive di centinaia di migliaia di persone che contemporaneamente scrivono, chattano, pubblicano video e immagini in tutto il mondo? Chi è minimamente curioso di come funzioni realmente Google, che ci mostra una porzione della rete grande quanto lo è la cache dei suoi server?  Queste e altre domande dovrebbero essere al centro del nostro interesse e della nostra riflessione perché la tecnologia costa ma soprattutto consuma enormi quantità di elettricità e nel farlo inquina, e non solo l’ambiente.

 

Finalmente un’inchiesta

A ricordarci quanto questa riflessione sia importante ed ineludibile ci ha pensato il New York Times con un’inchiesta giornalistica pubblicata in due puntate che analizza la crescita, in numero e dimensioni, dei data center, i loro consumi e l’impatto ambientale che gli stessi hanno. I risultati non sono piacevoli e richiederebbero un’attenzione maggiore da parte di operatori, pubbliche istituzioni e cittadini (consumatori). I data center che fanno funzionare il cloud, Internet e i social network e che ospitano le nostre email, le ricerche Google e le banche dati, consumano tanto, il 2% dell’intera produzione di energia elettrica disponibile. Più di quanto non consumi l’industria editoriale che in teoria dovrebbe essere sostituita dalle nuove tecnologie digitali ritenute migliori anche dal punto di vista ecologico.

La ricerca del giornale newyorkese è il risultato di uno studio condotto unitamente alla società di consulenza MacKinsey e durato un anno. I primi risultati pubblicati (altri seguiranno) sono un atto di accusa pesante nei confronti di operatori e grandi aziende come Microsoft, Amazon, Google, Yahoo, Facebook, Apple e molte altre che, malate di gigantismo e poco attente alle ricadute sociali delle loro azioni, stanno consumando in modo inefficiente grandi quantità di energia elettrica e di risorse. L’energia consumata è pari a 30 miliardi di watt ma solo il 12% è effettivamente applicata a fornire potenza di calcolo, storage e risorse applicative agli utenti. Tutto il resto viene sprecato e si disperde per una gestione non sempre attenta delle risorse messe in campo, della loro organizzazione e implementazione. Con l’obiettivo della crescita e del profitto molte realtà di data center trascurano i costi dipendenti dal trasporto inefficiente delle informazioni tra i vari server e centri di elaborazione, dal numero di server eccessivo e non proporzionato al carico e dalla mancata manutenzione e ricambio con tecnologie green più pulite.

Molta energia viene utilizzata per mantenere accesi e attivi server non sempre utilizzati perché ridondanti e finalizzati a garantire interventi rapidi di SLA a fronte di crash o blocchi del sistema. Nella realtà, molti Data Center sono tenuti al massimo della loro potenza anche se la domanda di servizio è minima. Il timore di non poter erogare il servizio ma anche l’indifferenza ai costi operazionali e sociali finiscono per determinare consumi elevati e nuovo inquinamento. Quest’ultimo è spesso causato dall’uso di energia che viene prodotta da generatori con motori a gasolio. Non è un caso che molti Data Center degli Stati Uniti appaiono nell’inventario dei siti contaminanti e tossici.

L’ignoranza (non conoscenza) della realtà dei data center nel mondo è diffusa e riguarda non soltanto i navigatori della rete ma anche giornalisti, aziende e osservatori. Al New York Times la raccolta di informazioni, utili alla produzione di un rapporto che fotografasse la realtà, è costata un intero anno di indagini e centinaia di interviste. La fotografia è impietosa ed è tanto più preoccupante quanto più estesi e popolati sono i data center. Quello di Facebook, per servire un miliardo di utenti, occupa centinaia di migliaia di metri quadrati, occupati da file interminabili di scaffalature piene di server, tutti con i loro sistemi di raffreddamento. Ma molti delle decine di migliaia di Data Center oggi esistenti hanno caratteristiche simili e tutti contribuiscono in maniera esagerata,sostiene il New York Times, allo spreco di energia e all’inquinamento.

 

Come affrontare il problema

Dalla realtà evidenziata il rapporto cerca di trarre utili suggerimenti capaci di generare comportamenti virtuosi. Tutti infatti possiamo contribuire a ridurre il tasso di inquinamento e a costruire un futuro diverso. Molte aziende forniscono agli utenti spazi enormi per attività senza senso che potrebbero essere impedite. I server non attivi potrebbero essere spenti o disattivati durante la notte e per farlo basterebbe introdurre sistemi di monitoraggio come quelli implementati dal National Energy Research Scientific Computing Center. A contribuire devono essere anche i cittadini della rete riducendo l’uso inopinabile e insano di cinguettii, di messaggini, di chat e altre attività online non sempre necessarie o urgenti oppure facendo pulizia più frequentemente nelle notre mailbox Gmail per eliminare archivi non necessari.

L’articolo del New York Times, nella sua ruvidezza ha provocato diverse reazioni: di benvenuto da parte di color che su questo problema stanno scrivendo con preoccupazione da anni; di critica da parte di quanti vi hanno intravisto molta superficialità nell’analizzare il fenomeno e le tecnologie coinvolte e colpevolizzate; di sospetto da parte di coloro che ritengono che la critica provenga da editori preoccupati di essere resi obsoleti dalla dematerializzazione e digitalizzazione in atto.

Le critiche, tutte condivisibile e plausibili, non diminuiscono il valore e il significato di quanto rivelato dall’indagine e serve come importante punto di partenza per analisi e riflessioni future. Non solo sul costo della tecnologia e sulla sua capacità di inquinare l’ambiente, ma sul ruolo che ha assunto e sulla passività di consumatori, aziende e pubblica amministrazione nell’utilizzarla in modo acritico, inconsapevole e superficiale.