In apparenza il Cloud è maturo. Non sempre è però quel luogo sicuro e standardizzato, che esprime il meglio della rete, dove le imprese possono fare business in modo più semplice e modulando gli investimenti. Ancora c’è molto da fare e da capire.

È difficile che guardando le nuvole due persone intuiscano la stessa forma. Così il Cloud è ancora molto variabile a seconda del punto di vista da cui lo si guarda. Gli utenti di tecnologia se ne servono da tempo in modo naturale, quotidianamente e senza neppure accorgersene, mentre le imprese medie e grandi per ora lo affiancano a impostazioni più tradizionali, ma molte oseranno di più già nei prossimi mesi. Quanto alle aziende piccole e medio-piccole, così importanti per il nostro Paese, quelle nate da poco usano senza troppe preoccupazioni il Cloud pubblico e ne fanno spesso il motore delle proprie attività di business, le altre, più numerose, scrutano ancora le nuvole in attesa di capire che tempo porteranno.
Del resto il Cloud è tanto semplice da usare quanto complicato da definire, anche perché come tutte le scatole chiuse ben confezionate, non è facile avere certezze su come funziona al suo interno. In questo stanno vantaggi e rischi di questo modo di concepire l’It, che mette a disposizione risorse facilmente fruibili da ogni unità di business in azienda, senza che siano necessarie competenze e infrastrutture specifiche.

 

Quando si può chiamarlo Cloud
Il National Institute of Standards and Technology degli Stati Uniti si è cimentato in una definizione di Cloud, valida per tutte le sue diverse sfaccettature. Il documento (pubblicazione speciale 800-145) è disponibile in rete ed è senz’altro utile a chiarirsi le idee. Una soluzione può essere indicata come in cloud se offre cinque caratteristiche essenziali: è attivabile on-demand secondo modalità self-service, sfrutta l’accesso alla rete per operare ovunque e su ogni genere di device, ha alle spalle un pool di risorse fisiche e virtuali condivise e assegnate dinamicamente secondo necessità, garantisce la massima elasticità operativa in funzione della domanda. Infine i servizi in cloud devono essere misurabili con precisione in termini di utilizzo delle risorse, offrendo report improntati alla massima trasparenza sia per il provider che per l’utente finale.
Nella pubblicazione del Nist vengono indicati anche i modelli di servizio che negli ultimi tre anni abbiamo imparato a conoscere. Software as a Service (SaaS), Platform as a Service (PaaS) e Infrastructure as a Service (IaaS), con quattro modelli di implementazione: Cloud privato, Cloud community (Croudsourcing), Cloud pubblico e Cloud ibrido.
Tutta questa varietà rappresenta un’opportunità se regolata come in un mosaico da un servizio It consapevole, mentre costituisce un rischio per la sicurezza dell’azienda e l’efficienza dei processi di business se il quadro complessivo è composto in modo disorganico dalle iniziative fai-da-te dei diversi reparti.

 

L’anno che verrà
Che il Cloud computing rappresenti uno dei trend più interessanti per le previsioni di investimento in It nell’immediato futuro non è un mistero per nessuno.
Secondo l’ultimo rapporto Assintel, nel periodo 2009-2012 la spesa per soluzioni “as-a-service” in Italia è cresciuta con un tasso composto del 52%. Nello specifico, secondo la rilevazione Nextvalue di ottobre 2012, lo scorso anno si sono spesi 400 milioni di Euro in servizi SaaS, 70 milioni in PaaS e 150 milioni per soluzioni IaaS, dati che rappresentano una crescita anno su anno rispettivamente del 52,7, del 75 e del 64,8%. Sono numeri importanti visto il contesto difficile, indicatori di un trend a carattere decisamente globale.
Secondo una ricerca commissionata da Vmware a Idg, le imprese europee spenderanno per il Cloud un terzo del loro budget per information technology tra la fine del 2012 e il 2013, secondo una proporzione del tutto comparabile con la media mondiale.
La ricerca aiuta anche a sfatare un luogo comune, ovvero che quello che si cerca dal cloud è soprattutto un risparmio. La riduzione degli investimenti in infrastrutture è infatti al sesto posto tra le ragioni che spingono le aziende a investire nella nuvola. Al primo posto c’è il desiderio di incrementare la produttività del reparto It, seguito dalla maggiore agilità del business e dall’incremento della disponibilità e della capacità di storage e risorse di elaborazione. Al quarto posto c’è invece la speranza di ridurre le risorse necessarie alla manutenzione e all’assistenza dei servizi It, in cui sono impliciti risparmi significativi e persino un probabile ridimensionamento dello stesso reparto It. Al quinto posto c’è poi il desiderio di aumentare il controllo sulle attività It, segno che permane una ragionevole fiducia nella sostanziale trasparenza delle soluzioni Cloud, on premise e non.
Nello speciale che trovate sul numero di gennaio di Computer Business Review abbiamo sviluppato i temi della sicurezza e gli elementi di incertezza e dubbio che ancora permangono intorno all’adozione del Cloud computing, dando una visione più ampia possibile di applicazioni concrete delle soluzioni che molti vendor hanno già dispiegato per supportare le nostre imprese.