Nella fase attuale l’ago della bussola non propende né verso la deflazione, né verso l’inflazione. Ma il mondo accademico e degli imprenditori è diviso. C’è infatti chi teme di più la deflazione e chi invece l’inflazione. Chi scioglierà il dissidio?

Nel futuro dell’economia occidentale ci sarà un rischio deflativo o una spirale inflazionistica? E’ la questione cruciale che Stati Uniti ed Europa saranno chiamati ad affrontare nel corso dei prossimi mesi. La ripresa economica che nel primo semestre dell’anno, pur tra segnali deboli e contraddittori, era tornata a presentarsi nei dati di alcuni indicatori come gli ordini e il fatturato delle imprese manifatturiere, è stata in parte sconfessata nella coda dell’estate. Negli Stati Uniti – ha confermato lo stesso presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan – la curva della crescita subirà una sensibile contrazione nell’ultima parte dell’anno e le previsioni sul Prodotto interno lordo dovranno essere riviste al ribasso. Infatti, dall’altra parte dell’Atlantico la disoccupazione è tornata ad aumentare e questo comporterà una ulteriore contrazione dei consumi, che farà aumentare le scorte e gli invenduti: una condizione che è vista come fumo negli occhi dai regolatori della più forte economia del pianeta, da sempre imperniata sull’andamento delle vendite al dettaglio. Dopo la grave crisi del 2008-2009 l’America è cresciuta grazie agli aiuti dello Stato alle imprese in difficoltà e al supporto della Federal Reserve che ha lavorato sul mantenimento dei tassi al minimo storico. Pur in presenza di condizioni che rendono più facile il reperimento di capitali da parte degli imprenditori e degli investitori, il nuovo ciclo economico non è decollato. Anzi, per mantenere le quote di mercato e per non perdere le posizioni acquisite, molte aziende commerciali stanno riducendo i prezzi delle merci. In molte aree statunitensi i prezzi delle case sono ancora in discesa.

 

La scuola deflazionista

Insomma, non solo la crisi si fa ancora sentire, ma giorno dopo giorno si rende sempre più concreto il rischio di una deflazione sistemica, che comporterebbe una stagnazione economica in presenza di scarsità di liquidità circolante con tendenza alla contrazione dei prezzi. In sostanza, in questa situazione, che solo apparentemente è paradossale, chi possiede liquidità sa che domani potrà acquistare beni a prezzi inferiori rispetto a quelli che si presentano oggi e così tende a tesaurizzare i capitali in vista di operazioni future più vantaggiose. Le banche risulterebbero piene di soldi, il mercato invece dovrebbe fare i conti con una velocità quasi nulla della moneta, impiegata solo per la sussistenza o poco più da una consistente parte della popolazione. E’ questa la situazione in cui è caduta l’economia giapponese a cavallo degli anni ’90. Da questo rischio non sarebbero immuni nemmeno i Paesi europei, che sono alle prese con la necessità di far quadrare i conti, di contenere la spesa pubblica e di far ricorso anche ad una politica fiscale più rigorosa. Sono tutti fattori che spingono verso una potenziale riduzione della domanda, con conseguenze dagli esiti incerti. Un attento osservatore italiano, convinto che il vero rischio da affrontare in futuro sarebbe proprio la deflazione, è ad esempio Carlo De Benedetti, che da diversi mesi lancia messaggi di allerta in questo senso. La sua posizione non è isolata e ora vanta un numero crescente di sostenitori. Intanto dobbiamo registrare che anche la Cina e i principali Paesi emergenti, tra cui India e Brasile, mostrano alcuni segnali di rallentamento delle loro economie. Insomma, non c’è in vista, almeno a breve, nessun surriscaldamento delle attività, un fattore che lascerebbe spazio all’aumento dei prezzi. Anzi, è molto probabile che si debba passare per un’altra fase di recessione o comunque di forte ridimensionamento delle attività, prima che la ripartenza possa considerarsi consolidata.

 

La scuola inflazionista

Tuttavia, secondo alcuni altri osservatori, nei Paesi occidentali si aggirerebbe lo spettro dell’inflazione. Un male che ora si presenterebbe solo allo stato potenziale, ma che potrebbe presentare rischi devastanti. E’ ad esempio uno dei crucci del presidente della Banca Centrale Europea, Jean-Claude Trichet, un’opinione peraltro condivisa da esponenti della cultura economica come Mario Monti, già Commissario europeo e ora presidente dell’Università Bocconi. Anche l’economista Marco Onado teme che possa rialzare la cresta l’inflazione, una corrente sottocutanea che procede con un’impostazione di lungo periodo e con fiammate occasionali. In piena estate le condizioni climatiche avverse (per un caldo biblico senza precedenti nella storia delle pianure sarmatiche) hanno abbattuto la produzione di grano in Russia. I prezzi delle materie prime sono schizzati e hanno trascinato al rialzo altre voci, contribuendo così a episodi di fiammate inflazionistiche. Ma secondo molti critici si tratterebbe appunto di sole fiammate episodiche, alimentate da una forza particolare, quella della speculazione finanziaria che agisce sui futures delle materie prime. In realtà ci sarebbe invece una corrente di fondo molto più pericolosa, in quanto costituita dalla enorme massa di liquidità che le banche centrali di mezzo mondo (Usa ed Europa in testa) hanno contribuito ad aumentare per fare fronte alla crisi dei mutui sub-prime prima e alla disfatta dei conti pubblici in diversi Paesi europei poi. Detto in sintesi, i forzieri delle banche sono pieni di moneta, il mercato è in timida espansione. Ma la velocità di circolazione della moneta è talmente ridotta che non si può ancora evidenziare la pericolosità dell’inflazione. Tuttavia, cosa accadrebbe se per qualche ragione – anche episodica – si innestasse una nuova spirale dei prezzi e la moneta cominciasse a circolare in maniera vorticosa? In giro ci sono montagne di cartamoneta e di strumenti che vanno a comporre una massa monetaria che secondo le stime cresce negli Stati Uniti di almeno il 10% all’anno. Anche in Europa i dati sull’indicatore di massa monetaria (M3) mostrano una crescita. Ma non ancora così robusta. In sostanza, potrebbe accadere che, un giorno, chi ha in mano moneta potrebbe essere indotto a spenderla subito per timore che domani i prezzi dei beni possano essere più alti.

 

Chi ha ragione?

Come lo Ying e lo Yang, deflazione e inflazione sono due tendenze che, almeno per brevi tratti ed entro certi limiti, possono convivere in un tiro alla fune che permette di compensarne reciprocamente le forze in un punto di equilibrio più o meno stabile. E’ quanto sta accadendo alle nostre economie, come conseguenza della politica della Fed che da circa due anni ha scelto di ridurre drasticamente i tassi e di mantenerli altrettanto drasticamente al minimo. Ci si chiede quanto il meccanismo possa durare. E’ probabile che possa durare più a lungo quanto più la ripresa è debole e discontinua. Ma in caso di impennata della crescita o di forte contrazione delle attività, gli equilibri attuali potrebbero saltare. Paradossalmente, per evitare guai peggiori (deflazione o inflazione) è davvero auspicabile che la ripresa resti moderata e sotto controllo, almeno dal punto di vista della moneta. In pillole è questo che sembrano pensare i banchieri delle banche centrali. Il loro comportamento e le loro scelte operative in materia di tassi di sconto sembrano davvero propendere verso una visione del futuro che ammetta la possibilità di una parziale ripresa inflazionistica per evitare guai peggiori. Forse anche per questa ragione molte società e molti istituti bancari hanno emesso obbligazioni il cui rendimento rispetta già punti di equilibrio futuro, con livelli ampiamente superiori al 4 per cento. Non si tratterebbe solo di rendimenti che contemplano premi di rischio. Essi incorporerebbero già l’aspettativa di una certa ripresa dell’inflazione, a partire dal 2012, in concomitanza di una possibile e consolidata risalita dei tassi. A livelli che tutti si augurano tollerabili per evitare ulteriori squilibri al sistema economico e a quello sociale.