Nel recente vertice dell’Ecofin di Bruxelles i capi di Stato e i ministri dell’economia dei Paesi dell’area euro hanno concordato l’istituzione di un fondo salva Stati permanente, operativo dal 2013

La scelta dei governi nazionali di non condividere fino in fondo i rischi attuali legati alla moneta comune, tuttavia, non sottrae l’Eurozona dalle mire degli speculatori internazionali.

In origine la Grecia, poi l’Irlanda e, ora, Spagna, Portogallo e Belgio. E’ un’Europa a rischio di attacco sui mercati finanziari quella che nei giorni scorsi ha riunito a Bruxelles i ministri economici dell’Ecofin per porre un argine ai tentativi sempre più insistenti della speculazione internazionale di mettere nel mirino i debiti sovrani dei Paesi membri. Dopo il prestito autunnale all’ex tigre celtica, travolta dal collasso del sistema bancario nazionale (85 miliardi di euro concessi, di cui 22,5 in arrivo dal Fondo Monetario Internazionale, 45 concordati con l’Ue e 17,5 impegnati dallo stesso governo di Dublino) e sotto costante osservazione delle agenzie di rating, è infatti precedente di qualche ora l’inizio del vertice dei ministri finanziari la notizia che Moody’s potrebbe declassare il rating della Spagna dall’attuale livello Aa1 ‹‹a causa del previsto elevato fabbisogno di spesa nel 2011, derivante dalla difficoltà del governo centrale di Madrid di tenere sotto controllo i conti delle regioni autonome e dalla precarietà del sistema bancario; il che, verosimilmente, rende il Paese suscettibile di ulteriori periodi di tensione per finanziarsi sul mercato››.
Immediata la reazione negativa delle Borse continentali, che con il segno meno hanno portato l’euro a 1,3134 dollari e hanno provocato un ulteriore aumento dello spread tra i bond tedeschi e i titoli dei Paesi periferici. Una situazione che nessun governo può più ignorare e che ha convinto anche la riluttante Germania a sedersi attorno al tavolo con partner virtuosi e meno virtuosi e a impegnarsi per salvare il destino della moneta unica.
In effetti, i risultati ottenuti all’Ecofin sembrano essere riusciti, quanto meno, a calmare l’ansia di Berlino (crescita economica del 3,6% nel 2010) di doversi fare carico dei conti in sofferenza dei Paesi con bilanci meno solidi, grazie a un accordo che pone le norme comunitarie a garanzia del funzionamento e dell’affidabilità dei meccanismi di protezione approntati per gli Stati.
Il presupposto su cui i ministri hanno impostato i lavori dell’Ecofin, infatti, accoglie la richiesta della Germania di correlare qualsiasi cambiamento apportato alla disciplina finanziaria dell’Unione a un adeguata modifica del corpo legislativo, procedendo a un emendamento dell’articolo 136 del Trattato di Lisbona che porterà all’attivazione, nel giugno 2013, del Meccanismo europeo di stabilità (Esm) ovvero un sistema permanente di risoluzione delle crisi sovrane che prenderà il posto dell’attuale Fondo temporaneo di stabilizzazione dell’Eurozona (Efsf) istituito la scorsa primavera sulla scia del caso greco e dotato di un budget di 440 miliardi di euro.
“Gli Stati membri la cui moneta è l’euro possono creare un meccanismo di stabilizzazione da attivare, se indispensabile, per la salvaguardia dell’area euro nel suo insieme. L’erogazione di qualsiasi assistenza sia richiesta al meccanismo sarà assoggettata a stretta condizionalità” recita il nuovo comma dell’articolo, che dovrà essere ratificato dai parlamenti nazionali entro il 2012.
Al varo dell’Esm hanno fatto seguito la proposta del Regno Unito di congelare il bilancio dell’Ue fino al 2020 (le spese potranno crescere in termini nominali ma non reali e, per volontà di Francia e Germania, dovranno assestarsi all’1% del Pil comunitario) e, soprattutto, l’aumento di capitale della Bce, che, già esposta per gli acquisti di titoli dei Pigs effettuati in questi mesi, ha scelto di dare solidità all’intera operazione portando la propria capitalizzazione a quota 10,7 miliardi di euro.
Non è passata, invece, l’idea, sponsorizzata dal ministro Giulio Tremonti e dal presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Juncker, degli eurobond, titoli obbligazionari che verrebbero emessi dall’istituto di Francoforte e che fungerebbero da garanzia circa la solvibilità e la stabilità dell’area euro sui mercati di investimento internazionali. “Abbiamo a che fare con una crisi sistemica e l’introduzione di eurobond costituisce una risposta sistemica ai problemi di Eurolandia. L’emissione di obbligazioni europee darebbe vita a un mercato obbligazionario omogeneo e molto liquido, simile a quello degli Usa. Senza comportare un incremento automatico dei tassi per la Germania, gli eurobond includerebbero fino al 60% del Pil degli Stati di Eurolandia, e, in questo modo, creerebbero un incentivo alla riduzione dei debiti eccessivi per potere partecipare alle emissioni meno onerose” ha dichirato Juncker.
D’altra parte, come ha ribattuto il presidente di turno dell’Ecofin, il belga Didier Reynders, “l’attuale fondo temporaneo salva Stati prevede già di emettere titoli garantiti dai Paesi dell’Eurozona, del tutto simili a quelli proposti da Tremonti e Juncker”. Di fatto, l’opposizione all’iniziativa viene da Germania e Francia, recalcitranti di fronte alla prospettiva di assumersi il rischio delle economie più in difficoltà e di dovere conseguentemente sostenere un aumento dei tassi d’interesse delle ipotetiche future obbligazioni.
Tuttavia, è proprio la mancanza di una visione comune di fondo, in cui condividere rischi, opportunità, diritti e doveri, a rappresentare il tallone d’Achille delle iniziative assunte finora dall’Europa per far fronte alla crisi internazionale: dove la lungimiranza del rifiuto degli eurobond, misura realistica, e forse inevitabile, per finanziare il debito del Vecchio Continente e che, Oltreoceano, troverebbe subito un corrispondente nelle analoghe mosse di quantitative easing della Fed? Che senso di sicurezza può trasmettere agli investitori il venturo Meccanismo europeo di stabilità, di cui peraltro non sono cristalline le condizioni di attivazione rispetto alla voce “stretta condizionalità” quando il pericolo di una speculazione sistematica contro una politica economica comune dell’area euro non aspetterebbe di certo il 2013 per dispiegare le sue armi?
E l’Italia? Come si riverberano le decisioni prese a Bruxelles sulle performance dell’economia del Bel Paese, appena chiamato a contribuire alla ricapitalizzazione della Bce con 625 milioni di euro e sotto accusa dei partner europei per l’anomalia di un debito pubblico endemico al 118% del Pil?
Al momento, il basso livello di indebitamento dei privati e la manovra finanziaria da 24 miliardi di euro congelata con la fiducia al governo allontanano la minaccia di un declassamento del rating sovrano italiano, anche se viene da chiedersi che competitività possa avere, nello scenario del commercio globalizzato, un’economia che, nel 2011, crescerà dell’1%, contro una previsione che solamente tre mesi fa parlava di un aumento dell’1,3% (dati del Centro studi di Confindustria).
Forse allora, per un Occidente che vede il baricentro del mondo spostarsi lentamente a Est, la soluzione vera al problema della crisi sta nella ricerca di stimoli efficaci per la ripresa delle economie reali. Anche a costo di assumersi qualche rischio di troppo.