Per uscire dalla crisi e tornare ai livelli di ricchezza precedenti dovrà passare almeno un lustro

Almeno per il nostro Paese, contrassegnato da una serie di debolezze e limitazioni strutturali che ne impediscono un rilancio a breve. Questa è l’opinione dell’economista Mario Deaglio, che approfondisce alcuni aspetti della sua puntuale analisi congiunturale contenuta nell’ultima edizione annuale del suo Rapporto sull’economia globale.

Dobbiamo spostare lo sguardo lontano, spingerlo oltre i limiti imposti dal pregiudizio che vorrebbe un recupero veloce, entro due o tre anni. “L’Italia – dice l’economista Mario Deaglio – tornerà ai livelli precedenti la crisi solo nel 2015”. Abbiamo dunque davanti un periodo piuttosto lungo e complesso per riacciuffare la crescita. Nel frattempo dobbiamo leccarci le ferite, sudare ancora e risalire la china. Questo mentre altri Paesi più virtuosi, come la Germania e la Francia, molto probabilmente procederanno a passo più spedito e ci distanzieranno. Non è affatto tenero il brillante studioso di fatti e tendenze dell’economia globale. “Il 2010 – prosegue – è stato un anno caratterizzato da grande incertezza, scandita sia da venti macroeconomici di rilievo, come le varie reincarnazioni della crisi del debito, fino alle costanti tragedie ambientali come la marea nera delle acque del Golfo del Messico. Questo senso di fragilità è di fatto lo specchio di un quadro congiunturale che appare più lontano di un anno fa dall’uscita definitiva della crisi e distante ancora almeno 12 mesi, almeno per quanto riguarda gli Stati Uniti, dal riconquistare il livello del Pil raggiunto nel corso del 2008”. L’analisi della situazione congiunturale e dello stato di salute del sistema finanziario è contenuta nel 15esimo rapporto sull’economia globale promosso da UBI Banca e dal Centro Einaudi e curato da una squadra di ricercatori sotto la guida del professor Deaglio.

Ma come si presenta in particolare il quadro congiunturale italiano?
Mario Deaglio – L’outlook per il nostro Paese è ancora più modesto perché l’Italia aveva cominciato a perdere terreno già da diversi anni. Come i giapponesi, anche noi scontiamo la situazione di stagnazione che aveva preceduto la crisi. C’è stata una ripresa, ma molto debole e con una velocità ridotta. Per queste ragioni, come già ho accennato, il raggiungimento dei livelli precedenti la crisi non dovrebbe avvenire prima della metà del 2015, tanto per noi quanto per il Giappone.

In questo quadro, quali sono gli elementi specifici e originali della nostra crisi che ci differenziano dagli altri Paesi con cui comunque siamo chiamati a confrontarci?
M. D. – Nel caso dell’Italia vi è l’aggravante del maxidebito pubblico che si traduce in pagamenti sugli interessi pari ad un volume di circa 70 – 80 miliardi di euro l’anno. Si tratta di soldi che potrebbero essere altrimenti spesi in infrastrutture e sviluppo.

Quindi, professore, che cosa abbiamo davanti a noi?
M. D. – Possiamo dire che nel complesso i Paesi più virtuosi recupereranno i livelli massimi del periodo pre-crisi entro due o tre anni. E’ il caso di realtà come la Germania, la Francia, gli Stati Uniti. Per altri, tra cui annoveriamo appunto l’Italia, il periodo sarà più lungo e molto dipenderà dall’evoluzione della congiuntura, perché come tutti i processi storici ci sono molti elementi da tenere in considerazione.

Quali sono i fattori più rilevanti in grado di modificare l’assetto dinamico dello sviluppo futuro?
M. D. – Più che valutare i singoli fattori – esercizio importante ma non conclusivo – occorre ragionare su alcune ipotesi generali. Si tratta di scenari di fondo, dalla elevata e intrinseca probabilità di attuazione. C’è un primo quadro nel quale si potrebbe assistere ad un elevato recupero del trend anticrisi, pur in presenza di alcune complicazioni legate alla moneta e ai tassi. Questa prima ipotesi è stata etichettata come “l’elastico di Friedman” ed è il modello verso cui stanno cercando di migrare gli Stati Uniti: tanto ripida è stata la discesa e tanto consistente deve essere la risalita, come nel caso del rimbalzo di un oggetto legato ad un elastico che viene lasciato cadere nel vuoto. C’è poi un secondo modello di sviluppo, che è stato soprannominato “la cicatrice permanente” e prevede che si possa recuperare la velocità di crescita, il ritmo dell’economia, ma non il tempo perduto. La frattura resterebbe intrinseca al sistema, appunto come una cicatrice. Infine c’è la terza via, quella che è ben rappresentata dall’esperienza nipponica, laddove si registra un calo permanente della velocità di crescita, sino alla stagnazione, all’immobilismo strutturale.

Tra questo ventaglio di possibilità, personalmente quale ritiene più probabile per l’occidente e per noi italiani?
M. D. – Credo che la più probabile possa essere la seconda ipotesi, quella che abbiamo definito con l’etichetta “cicatrice permanente”, ma dobbiamo tenere presente che le variabili in gioco sono numerose e che la loro concatenazione può produrre effetti scarsamente prevedibili. Inoltre, guardando in una prospettiva di maggior respiro, all’orizzonte si profila il rischio di un deficit energetico perché la produzione di petrolio è attualmente al suo picco e non sono ancora stati scoperti giacimenti in grado di sostituire quelli che perderanno progressivamente la produttività.

Alla luce di tutto questo, quali sono i rischi da affrontare?
M.D. – Dobbiamo entrare nell’ottica che sulla scena internazionale il Vecchio Continente giocher in futuro un ruolo di minor potenza e importanza. In piedi dovrebbero invece restare gli Stati Uniti, che potranno essere affiancati da una maggiore presenza dei paesi emergenti, dove la classe media è in crescita esponenziale, con tutte le conseguenze del caso in termini di spostamento degli equilibri globali fra domanda e offerta.

Questo nuovo assetto economico e geopolitico a livello internazionale cosa potrebbe provocare sui nostri modelli?
M. D. – In atto ci sono tre dinamiche. La prima riguarda il fallimento del sistema di regolazione, che ora deve essere completamente riscritto, ma con una differenza rispetto al passato. Fino a pochi anni fa infatti erano gli Stati Uniti a detenere in esclusiva lo scettero del comando e delle decisioni a livello internazionale. Ora invece sarà necessario considerare un modello pluralista. C’è poi un secondo trend che è caratterizzato dalla redistribuzione del reddito personale, un fattore che nel medio e lungo periodo potrebbe avere effetti destabilizzanti e ricompositivi al tempo stesso. Infine, c’è da prendere in considerazione che l’economia globale sta ridisegnando la mappa, i flussi, le strategie.

Può spiegarci meglio quest’ultimo aspetto?
M. D. – Basti pensare all’accordo del Free Trade in Asia (il Cafta) o ai continui acquisti di risorse preziose effettuati all’estero dalla Cina.

In ultima analisi, per quanto riguarda l’Italia, che cosa ancora ci può dire?
M. D. – La diagnosi resta quella di una convalescenza ancora piuttosto lunga e difficile, considerato che nessun motore produttivo ha ancora recuperato i picchi toccati prima della crisi. Questa è la prima crisi i cui servizi, anziché compensare la diminuzione delle attività dell’industria, pagano anch’essi un costo. Le prospettive per il nostro Paese non sono del tutto incoraggianti. La crisi italiana è una crisi di struttura economica che alla fine risulta poco efficiente, mal specializzata e che si è andata allontanando dalla frontiera dell’innovazione. E’ insomma una crisi della produttività dei fattori. E se non cambia nulla, i tassi di crescita post-crisi saranno destinati a rimanere molto bassi, rischiando così di renderci un Paese-museo. Un grande patrimonio artistico disseminato in una terra di scarsa produttività economica.