Con la crisi irlandese si è imposta la necessità di una revisione dell’intero sistema del credito e del debito europei. In gioco non ci sono solo gli stati ma anche le banche centrali e quelle commerciali, chiamate a nuove responsabilità dirette nella gestione degli investimenti

Dalle difficoltà si potrà uscire – così almeno pare di scorgere nelle intenzioni di coloro che stanno per riformare il sistema – attraverso uno sgancio del debito dai Paesi, per assegnarlo a fondi istituzionali, ai privati e ai comuni cittadini. Vediamo come e perché…

La crisi greca e la crisi irlandese hanno trasmesso una lezione alle istituzioni europee e ai paesi membri: in futuro – e quindi a partire dal 2011 – si dovrà applicare una politica condivisa di ristrutturazione del mondo bancario e del sistema del credito, per evitare che la somma tra l’esposizione delle attività di sportello e il debito sovrano degli stati raggiungano livelli insostenibili. Il rischio di default è insito in questa complessa articolazione. Già l’anno scorso uno studio di Société Générale aveva messo in guardia gli operatori, evidenziando che, senza correttivi, “nei paesi occidentali il debito pubblico avrebbe potuto raggiungere nel 2012 il 145% del Pil”. Una valutazione che teneva conto solo dell’esposizione statale e che non considerava il peso dei debiti delle famiglie. A mettere in guardia operatori e risparmiatori è stata recentemente la Banca Centrale Europea, la quale, in un report dedicato alla crisi irlandese, ha messo in rilievo che “alla vigilia della crisi, il totale delle attività del sistema bancario di Dublino era arrivato al 703% del Pil ed era solo due anni prima al 581%”. Si tratta di dimensioni colossali (si pensi che oggi la stima è del 243% in Italia) che mettono in luce un fenomeno che ha trasferito dallo stato alle banche il ruolo di volano della distribuzione di credito, senza avere la garanzia di un pagatore di ultima istanza. A meno che, al di sopra delle banche irlandesi, della banca centrale e del governo di Dublino, non ci siano i possessori di euro a garantire la stabilità e la sostenibilità del sistema. Ed è appunto quello che è successo ancora una volta con il piano di aiuto da 100 miliardi di euro. Per l’economista premio nobel Daniel McFadden, recentemente in visita in Italia, “l’euro non è in pericolo fino a quando Francia e Germania lo sosterranno e saranno pronti a salvare gli altri membri dell’Unione anche se sottoposti a pressioni finanziarie”. Francia e Germania sono le due anime che si agitano e si intrecciano all’interno della BCE e fintantoché reggono il ruolo la pace e la sicurezza delle monete e dei debiti sono garantite. Ma fino a quando potrà durare questa politica di equilibrio che presenta ampi margini di incertezza? Per l’economista Marco Onado, “non si può pretendere a lungo che la BCE si assuma la responsabilità ulteriore di reggere questa situazione francamente insostenibile già ora”. Le banche centrali devono cedere il credito di ultima istanza ma non possono essere l’unico creditore disposto a tenere in mano il cerino.

 

Come scaricare i debiti?

Di fronte a questa situazione le scelte possibili sono diverse e gli operatori istituzionali sono alla ricerca di ipotesi e alternative da verificare. C’è la strada dell’inflazione, che consentirebbe di ridurre il peso del debito nel corso degli anni. Ma è una scelta che i tedeschi respingono con ogni forza, per come sono ancora intimoriti dal trauma dell’iperinflazione dei tempi della Repubblica di Weimar. Mario Draghi, il governatore della Banca d’Italia, che peraltro presiede il Financial Stability Board, sta studiando la pratica e secondo quanto risulta in via confidenziale a Future Business Review, avrebbe pronto un disegno per ristrutturare il sistema del credito europeo nel suo complesso. Il progetto considera che la crisi non è confinabile nei recinti degli stati e non vive all’interno di confini locali: è una crisi sistemica, che riguarda un’area estesa e interi mercati e aree macronazionali. Interessa, ovviamente, l’area monetaria dell’euro, ma non solo, visto che le sue ripercussioni travalicano il Vecchio Continente per scaraventarsi in Oriente come a Wall Street. Le banche irlandesi – come quelle greche – potrebbero anche essere nazionalizzate, ma non sarebbe questa la soluzione più efficace, perché a loro volta, i singoli stati non avrebbero alla lunga le risorse e le misure precauzionali per contrastare ulteriori rischi derivanti dalla debolezza intrinseca del loro agire. Che cosa si sta pensando ai piani alti, allora? Secondo le indiscrezioni, è in vista un drastico programma di ristrutturazione delle banche, sia dal punto di vista organizzativo (anche con riduzione del personale) che funzionale (con un maggiore efficientamento della governance e degli sportelli). Gli istituti di credito, più sani e funzionali, saranno resi operativi anche dal punto di vista delle responsabilità dei creditori. Cosa vuol dire tutto ciò? Che mentre in passato il creditore ultimo era la banca centrale del paese di riferimento (o il ministero del tesoro), nel nuovo modello è prevista la ristrutturazione del debito privato a carico dei sottoscrittori di obbligazioni. E ciò vuol dire che le stesse banche, gli investitori, e con essi anche i piccoli risparmiatori, si assumeranno direttamente la responsabilità degli investimenti e, in caso di default dell’emittente, ne pagheranno direttamente le conseguenze lasciando libere le banche centrali e gli stati dai rischi e dagli oneri di insolvenza. Perché tutto questo possa essere attuato occorrono degli anni (almeno tre secondo alcuni osservatori) e soprattutto una condivisione di intenti da parte delle principali istituzioni da coinvolgere, che sono, oltre al Financial Stability Board, la Banca Centrale Europea, il nuovo comitato europeo per la supervisione bancaria e il Fondo Monetario Internazionale. Questo modello di ristrutturazione dovrà scendere alle radici, sino alle più piccole banche, in conformità con il piano stesso e con le regole di Basilea 3, che rappresenteranno contorno ambientale di riferimento.

 

E le nuove necessità di cassa?

Resta irrisolto un problema. O meglio, non è ancora trapelato come i tecnici comunitari intendano affrontarlo e risolverlo. Si tratta del nuovo debito pubblico che da qui al prossimo futuro gli stati europei andranno a generare per fare fronte alle emergenze di cassa. Il patto di stabilità, da solo, potrebbe non servire. Per il nobel Daniel McFadden, “si dovrebbe avviare una politica fiscale coordinata”. Insomma, c’è bisogno di un modello di raccolta delle imposte che sia condiviso e che armonizzi il quadro delle operazioni in tutta Europa, altrimenti l’euro sarà sempre una moneta intrinsecamente incompleta. In che modo sia possibile condividere la politica fiscale è un tema tutto da dibattere, mentre sul tema del debito pubblico (peraltro connesso alla questione fiscale) cominciano a fioccare idee innovative. Crescono le fila degli esperti che vorrebbero mettere in comune i debiti dei paesi dell’euro. Una proposta non nuova, tecnicamente non complicata, ma avversata da forti resistenze soprattutto di natura politica. Anche perché, secondo il Fondo Monetario Internazionale “a fine 2011 il debito pubblico dei paesi avanzati sarà più elevato di 29 punti percentuali rispetto all’inizio della crisi, al 2007”. Per Paolo Savona, economista e docente alla Luiss, “bisognerebbe ripartire da zero, o meglio, dal 60% del Pil, in linea con i parametri di Maastricht, trasferendo tutto l’ammontare di debito al di sopra di questa soglia al Fondo Monetario Internazionale, perché lo possa detenere per un lungo periodo, fino al risanamento completo dell’area euro”. Per un altro esperto, Alberto Quadrio Curzio, che insegna alla Cattolica di Milano, “si potrebbe pensare ad un’imposta patrimoniale, dosata e per fasce, affiancata – per evitare effetti recessivi – dall’emissione di eurobond con garanzia aurea data dalle riserve ufficiali”. Per un altro esperto, l’ex ministro delle Finanze, Vincenzo Visco, “si dovrebbe conferire tutto l’extra-debito ad un gruppo di fondi, che siano messi in grado di operare sul mercato come qualsiasi investitore non speculativo”. Come si vede stanno nascendo e si stanno sviluppando ampie proposte per armonizzare a livello europeo il sistema del credito come quello del debito. Il progetto di riforma è dietro l’angolo e per ora, sulla carta, sembrano tutti d’accordo sulla necessità di questa svolta. Il dibattito e l’evoluzione di questo disegno sarà seguito e analizzato con interesse e passione, soprattutto su un aspetto, quella clausola, per ora solo presunta, che prevede il trasferimento del rischio di investimento al sottoscrittore, sia esso banca o privato. Un dettame che sarà in grado di modificare – e rivoluzionare – i rapporti tra cittadino e stato. E tra cittadino e banche.