I partner dell’area euro hanno respinto il Patto per la competitività proposto dalla Merkel in cambio del rafforzamento del fondo salva Stati.

Tutte le decisioni rinviate a marzo. Ma sul New York Times Magazine Paul Krugman avverte: “O cresce l’integrazione tra le istituzioni europee oppure la deflazione nell’Ue sarà cronica”

Sembrava fatta, e invece la costituzione di un governo economico comune dell’Unione europea dovrà aspettare ancora. Almeno fino al prossimo vertice dei capi di Stato dell’area Euro che si riunirà a marzo. Nell’assemblea straordinaria del Consiglio europeo tenutasi a Bruxelles lo scorso 4 febbraio, infatti, Germania e Francia si sono scontrate con l’opposizione di una buona parte dei partner della moneta unica, tra cui Belgio, Lussemburgo, Austria e Polonia, all’attuazione del “Patto per la competitività” lanciato dalla cancelleria Angela Merkel, che, dopo la difesa appassionata dell’euro portata avanti a Davos insieme all’inquilino dell’Eliseo Nicolas Sarkozy, ha proposto ai colleghi dell’Eurogruppo condizioni precise per dare via libera al potenziamento dello European Financial Stability Facility, meglio noto come fondo salva Stati, così da renderne reale la dotazione da 440 miliardi di euro e garantire la stabilità delle economie del Vecchio Continente sulle piazze finanziarie internazionali. Berlino, finalmente accettato il ruolo di guida economica dell’Ue a due velocità (si veda l’emissione, a gennaio, del primo bond a cinque anni garantito dallo stesso salva Stati), intende infatti limitare al minimo il rischio di nuovi casi Grecia o Irlanda, e, per questo, chiede alle altre capitali europee un’armonizzazione delle politiche fiscali ed economiche; nello specifico, sulla scorta del suo esempio, riforme costituzionali nei singoli Paesi per sancire i tetti del 60% al debito pubblico e del 3% al deficit, età pensionabile comune fissata a sessantasette anni, abolizione delle indicizzazioni automatiche sui salari, omogenizzazione della tassazione alle imprese.
Il patto per la competitività, però, probabilmente considerato troppo ambizioso dalla maggior parte dei governi, per ora non è passato. Sfuma, quindi, almeno per il momento, la possibilità di dotare l’Europa di una gestione comune e coordinata dell’economia e delle finanze pubbliche. Già, perché a detta di molti osservatori, sarebbe proprio la latitanza di una politica finanziaria strutturata concordata a livello intereuropeo la principale causa dei problemi comunitari, crisi greca e irlandese comprese. Chi ci guarda da fuori, in particolare, sembra avere una visione più chiara e obiettiva della situazione in atto.
Uno su tutti il premio Nobel per l’economia Paul Krugman, che sulle colonne del New York Times Magazine spiega come, in qualche modo, la fase che sta attraversando l’euro sia fisiologica.
Scrive Krugman: “Gli architetti dell’euro, abbagliati dal romanticismo dell’impresa, hanno sempre ignorato le difficoltà che la moneta comune avrebbe incontrato, in particolare la mancanza di istituzioni necessarie a far funzionare la nuova valuta. A prevalere è stata una sorta di fiducia irrazionale, come se l’importanza del traguardo potesse bastare a superare qualsiasi problema”. Poi i problemi sono arrivati, con le fattezze della crisi dei debiti sovrani scoppiata nel 2010. Anche in questo caso, l’analisi dell’economista americano è penetrante. “Con l’introduzione della moneta unica, i vecchi timori sulla tenuta fiscale degli Stati dell’eurozona sono svaniti. I titoli di Stato di Grecia, Irlanda, Spagna e Portogallo erano considerati sicuri come quelli tedeschi. L’allineamento dei tassi d’interesse in tutta Europa, in particolare, ha indotto i Paesi che prima erano a rischio a contrarre debiti in modo sfrenato, sicuri delle garanzie prestate dalle banche tedesche e da quelle di altri Paesi i cui tassi di interesse erano storicamente bassi. Un momento esaltante, non solo per chi prendeva i soldi in prestito ma anche per la crescita economica dell’intera area continentale, costruita su un credito privo di un reale equilibrio. Dopodiché, si è scatenata la crisi finanziaria globale e, con questa, il ritiro degli investimenti internazionali dalle economie dei Paesi a rischio, oggi vittime della combinazione letale tra economia in deflazione e debito stabile”. Il columnist del New York Times chiude il proprio esame sugli affari europei prospettando, come unica soluzione plausibile all’impasse della moneta unica, uno sforzo congiunto dei diciassette Paesi dell’area euro in direzione di una maggiore integrazione dei quadri decisionali, finalizzata a contenere il debito e a recuperare la fiducia dei mercati internazionali.
Se anche da Oltreoceano il monito alla vecchia Europa è per una maggiore integrazione delle sue isitutuzioni, allora, forse, è proprio il caso che la proposta della Merkel non rimanga sulla carta.