A colloquio con Gianfilippo Cuneo, alla guida del fondo di private equity Synergo

La crisi dei debiti sovrani comunitari, l’attacco degli speculatori internazionali all’area Euro, su cui ora pesano i timori del rischio inflazione, e “l’Europa a due velocità”, con l’esempio virtuoso della crescita economica tedesca che si contrappone ai bilanci cronicamente in perdita dei Paesi in difficoltà.  Non è un buon momento per l’Europa, che, incapace di trovare un accordo sulla definizione delle misure approntate per dare vita al fondo salva – Stati, si deve anche guardare dall’avvicinamento economico e politico in atto tra Usa e Cina, con quest’ultima che, per bocca del suo presidente Hu Jintao, ha più volte espresso l’intenzione di procedere all’acquisto delle obbligazioni dei Paesi europei in difficoltà, a garanzia di un futuro controllo sulle economie di questi ultimi. In tutto questo, la nostra Italia è alle prese con un debito pubblico alle stelle e una ripartenza economica timidamente annunciata ma di cui ancora non si vede traccia. Insomma, stiamo attraversando una fase di profonde trasformazioni strutturali e sociali in cui, tra bolle finanziarie e credit crunch delle banche, è difficile, anche per gli imprenditori più accorti e lungimiranti, trovare la via che porta all’uscita dalla crisi. Ne parliamo con Gianfilippo Cuneo, alla guida del fondo di private equity Synergo, attivo nel finanziamento alle aziende nostrane a forte connotazione imprenditoriale.


Solo qualche anno fa, più precisamente il 31 maggio del 2007, Mario Draghi sosteneva che “la finanza ha dato un contributo fondamentale alla crescita economica, consentendo una mobilità di capitali senza precedenti e favorendone l’efficiente allocazione; finanziando in modo ordinato squilibri che, in altre epoche, sarebbero stati dirompenti. L’innovazione finanziaria ha conferito liquidità ai mercati e ne ha ridotto la volatilità”. Oggi, dopo la recente bolla finanziaria, è possibile fornire una stima di come è cresciuta la massa dei finanziamenti reali, sostanziali, alle imprese?

La finanza ha conosciuto una fase di espansione planetaria durante la prima parte del secolo. Tuttavia, solo una minima parte dei proventi di quest’ultima è servita a rifornire di capitali le imprese, che, anzi, sulla grande illusione dei guadagni facili derivati dalla finanza hanno costruito piani effimeri di crescita indefinita. Poi, all’improvviso, tutto è crollato, e, ora, ci ritroviamo in un contesto che, per i prossimi decenni, sarà caratterizzato da uno stato di stagnazione dell’economia.


Verso quali settori e segmenti d’impresa si è distribuito, in particolar modo, l’intervento di sostegno finanziario da parte dei capitali di rischio erogati dagli istituti bancari e dagli Enti pubblici?

 

In questa fase banche e istituzioni pubbliche non hanno dispensato grandi quantità di capitali di rischio, e, francamente, questo non è neanche il loro mestiere. Piuttosto, il capitale dovrebbero erogarlo i fondi, gli investitori, la Borsa e, in generale, tutti quegli operatori che conoscono l’entità del rischio finanziario e sanno come muoversi per tutelarsene e ottenerne un guadagno futuro. Il problema della situazione attuale dei mercati, però, è che nessuno sa più quantificare e valutare con precisione il rischio. Oggi “rischio” è una parola senza contenuti reali.


Come valuta l’ingresso della concorrenza straniera nel mercato italiano dei capitali per l’aiuto alle imprese?

Posto che l’obiettivo finale di qualsiasi investitore è il guadagno, è chiaro che un livello maggiore di concorrenza nell’offerta migliora le possibilità di approvvigionamento dei capitali per le imprese. Penso, in particolare, a tutte quelle realtà del nostro Paese che ricevendo iniezioni maggiori di liquidità nelle proprie casse potrebbero sbloccare le diverse attività di business a portafoglio. Come nel caso delle imprese che hanno capitali investititi nel settore dell’immobiliare e che, ricevendo dai fondi denaro fresco, avrebbero la possibilità di dedicarsi ai rispettivi business d’origine.


Fonti energetiche, materie prime, instabilità politiche. Sempre più imprese fanno ricorso a strumenti di finanza derivata per la gestione del rischio. Quali sono le prospettive in questo campo?

Lo ripeto: nessuno, oggi, sa quantificare veramente il rischio. Qual è il fattore di rischio di una valuta che si può deprezzare all’improvviso? Oppure, quello dei debiti sovrani? Non esiste una risposta precisa. Alle difficoltà di valutazione e di interpretazione, poi, si è aggiunto, negli ultimi anni, un uso degli strumenti derivati completamente scollegato dall’andamento dell’economia reale. Si è legittimato, dunque, un concetto del gioco per il gioco e del rischio per il rischio in cui non vedo alcuna utilità.


Le Pmi italiane sono spesso sottocapitalizzate e con strutture organizzative minime. Che cosa si può fare per aiutarle a crescere, in termini dimensionali e strategici?

E’ l’impresa che, prima dell’apporto di qualsivoglia capitale, deve aiutare se stessa, con imprenditori abili e motivati a crescere. Dopodiché, se intende ricorrere al mondo del private equity, l’impresa deve anche accettarne le regole; ovvero, deve valutare la possibilità di includere al suo interno anche soci esterni e deve sapere remunerare il capitale ricevuto in maniera adeguata. In quest’ottica, ritengo che una bella iniziativa sia il fondo dedicato alle Pmi lanciato di recente dal Governo in collaborazione con le banche.

 

La concorrenza delle banche straniere è agguerrita. I mercati sono sempre più rischiosi a causa dei fattori di incertezza dovuti al costo delle materie prime, alla globalizzazione e alle tensioni politiche e militari. Cosa c’è da cambiare nella cultura bancaria per renderla più operativa e più vicina alle imprese?

Non credo ci sia molto da cambiare. Le banche sono sempre state vicine alle imprese. Tranne per qualche fenomeno estemporaneo di gigantismo, alla luce del quale diventava difficile per l’imprenditore trovare il giusto interlocutore per le proprie esigenze, le banche italiane, per quello che è il loro mestiere, cioè prestare denaro, si sono sempre comportate bene, molto meglio che in altri Paesi del mondo occidentale.


In che misura i fondi di private equity possono aiutare la capitalizzazione delle imprese italiane, caratterizzate, in genere, da strutture medio – piccole?

Esistono fondi di tipo privato e fondi, vedi il caso dell’iniziativa del Governo a favore delle Pmi di cui si parlava prima, in cui è più forte la componente pubblica. Ancora una volta, però, mi sento di affermare che l’elemento discriminante è la figura dell’imprenditore, che deve assumere la giusta mentalità per attirare l’interesse dei fondi stessi. In particolare, un ostacolo da superare è quello relativo alla liquidazione dei capitali ottenuti, operazione che prima o poi va eseguita, senza ricorrere al pretesto che questa, in un tempo più o meno vicino, avverrà in Borsa, perché una soluzione del genere, per un’azienda medio – piccola, non è molto lungimirante.

Cosa c’è dietro l’angolo? Quali scenari ritiene probabili per il futuro?

Quando mi si chiede del futuro cito sempre una vecchia legge dello Stato di New York, che dice “che chiunque asserisce di potere prevedere il futuro è passibile di una multa fino a cento dollari, a meno che non si tratti di un ministro del culto che agisce in buona fede”. Ovviamente, non si tratta del mio caso. Credo, però, che più che prevedere sia possibile dedurre. E quello che si deduce dallo stato delle finanze pubbliche, dallo stato dell’economia e dalla storia recente fa luce su un’Italia e un Sud Europa che nei prossimi anni non cresceranno. La crisi, in un certo senso, è finita: bisognerà adattarsi a vivere in un contesto di stagnazione permanente, in cui, però, le opportunità derivanti da specifici segmenti dell’economia non mancheranno. Chi è bravo saprà coglierle.