Educare, formare e aggiornare: la centralità della risorsa umana nell’impresa contemporanea

Sapere di non sapere, nella vita è la strada maestra per crescere, per imparare, per conservare intatta nel tempo la passione per la conoscenza, il gusto della scoperta, la tensione verso l’ignoto, senza lasciare che l’incertezza paralizzi la nostra capacità di leggere il presente. Se ne rese conto per primo Socrate e la lezione divenne patrimonio dell’umanità, un invito appassionato a conservare menti libere e aperte, capaci di visualizzare l’inedito. Secoli dopo, nel 1989, all’Università di San Gallo, Confederazione Elvetica, sir Karl R. Popper è il protagonista della Lecture “Libertà e responsabilità intellettuale” del “Liberales Forum”. Non è nuova questa citazione; ve la feci già qualche mese fa ma la riprendo perché l’insegnamento è prezioso e mai come ora attuale. Al centro della lezione c’è il futuro molto aperto che, scrive Popper, dipende da noi tutti. “Dipende da come vediamo il mondo e da come valutiamo le possibilità del futuro che sono aperte. Ciò significa per noi una grande responsabilità che diventa ancora più grande quando diveniamo consapevoli di questa verità: che non sappiamo niente, o meglio, che sappiamo tanto poco da essere autorizzati a definire questo poco come un niente”.

Il mondo pieno di idee
San Gallo è solo a poche decine di chilometri in linea d’aria da un’altra cittadina svizzera molto nota, Davos. È qui che ogni anno si tiene il famoso meeting annuale del World Economic Forum. L’edizione che si è appena conclusa a fine gennaio ha esplorato la crescente complessità del mondo in cui viviamo; in un panel specifico “Leading within Complexity” di sabato 29 gennaio, sono emersi con chiarezza i temi portanti del primo decennio del nuovo secolo, un secolo, almeno in questo scorcio iniziale, pieno di incertezza e instabilità, eppure fertile, forse come mai, di idee nuove che funzionano. C’è una parte del mondo che, grazie anche alla profonda trasformazione delle culture avviata dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, cambia più rapidamente di quanto chiunque avesse mai potuto immaginare. Rischio, incertezza, complessità diventano le “invarianti” della cultura aziendale contemporanea. L’incertezza generata da un mondo sempre più complesso è la prova tangibile di quel socratico “quanto più so tanto più capisco di non sapere” da cui dipende lo sviluppo della nostra conoscenza; è questa la chiave di lettura della complessità, quella che ci permette di superare l’approccio ego – system per orientarci a quello eco in cui le relazioni si trasformano in elementi strutturali. In azienda, significa concentrarsi non solo sugli “output” ma anche sugli “outcomes”.
Educare all’incertezza, educare alla complessità; ecco la sfida quotidiana delle imprese, la sfida che trasformerà le risorse umane. Educare prima e formare poi al complesso è la missione che dovrebbe coinvolgere proprio tutti, tanto a livello pubblico quanto privato.

In un oceano di incertezza
In apertura vi ho citato Popper, ma l’autore contemporaneo che più di altri richiama alla complessità è l’eclettico filosofo antropo – sociologo Edgar Morin; è proprio lui che dagli anni Settanta ci ricorda che è necessario integrare l’incertezza nella realtà, senza per questo soccombere al relativismo. Dobbiamo solo imparare a “navigare in un oceano di incertezza attraverso isolotti e arcipelaghi di certezza. Ci sono numerose certezze locali, parziali, frammentarie, che ci aiutano a navigare”. Il pensiero complesso, ricorda ancora Morin, si sforza di collegare. Collega gli isolotti, costruisce teorie, buone pratiche ma non manca mai di vigilare sull’applicazione dei principi individuati. Più il mondo si fa complesso, più la formazione diventa critica per il successo delle imprese; da costo, la formazione diventa così un investimento che genera benefici significativi sulla produttività; dalla formazione dipende l’allargamento degli orizzonti della razionalità che permette di capire il faciendum, cioè la realtà dinamica. A Morin si deve l’approccio sistemico alla complessità che applicato all’azienda si trasforma in un percorso a tappe. (si legga il capitolo “La complessità e l’impresa” in “Introduzione al pensiero complesso”, scritto nel 1990 ma più attuale che mai). Si comincia con la consapevolezza che “il tutto è più della somma delle parti che lo costituiscono” da cui discende l’urgenza di educare alla responsabilità e alla consapevolezza del proprio ruolo, individuale e nel gruppo; si passa alla seconda tappa da cui si evince che “un tutto può anche essere meno della somma delle sue parti” e infine si giunge alla comprensione che “il tutto è contemporaneamente più e meno della somma delle parti”. Morin traduce tutto questo con un enunciato assai efficace, che sintetizza la dimensione dinamica e generatrice delle imprese: l’azienda produce cose e servizi ma mentre produce si auto – produce; il produttore stesso diventa “prodotto”. Per chi ha dimestichezza con la termodinamica questa osservazione evoca il paradosso del diavoletto di Maxwell; nel mondo della complessità introduce il principio della casualità retroattiva e non lineare, proprio quella che oggi, vent’anni dopo questi enunciati, è in grado di descrivere il funzionamento dell’azienda interconnessa. L’azienda nel mondo complesso è l’impresa che si auto – eco – organizza, come fosse un organismo vivente; si trasforma o anticipa i cambiamenti del contesto, costruisce e adatta la propria rete di relazioni da cui dipendono gli outcomes.

“Atomi sociali” nelle imprese
Quando l’incertezza domina ogni scenario possibile, è ragionevole pensare non ci sia governance davvero capace di predisporre misure idonee; non è questione di incapacità, è soprattutto mancanza di strumenti adatti per governare e comprendere ciò che accade. Il più delle volte possiamo solo “arrabattarci” (ricordate i Kluge, gli accrocchi che funzionano di cui parlammo un anno fa?); se avessimo un’idea delle “forze nascoste che guidano il mondo e danno forma alle nostre vite collettive”, forse ci arrabatteremmo meglio. La riflessione non è mia ma di Marck Buchanan; la trovate in “L’atomo sociale – Il comportamento umano e le leggi della fisica” (Mondadori editore). La tesi di Buchanan (che fa tesoro del Mito della Cornice di Popper) è in apparenza semplice; per capire il mondo complesso degli uomini è necessario pensare alle strutture, che scaturiscono proprio dalle relazioni tra persone, piuttosto che alle singole persone. L’atomo sociale, cioè l’individuo, segue regole più semplici di quanto si pensasse una volta; al tempo stesso gli scienziati stanno scoprendo che la complessità del mondo è prima di tutto il frutto dei modi sorprendenti con cui le persone tendono a cooperare. Proprio alla fisica e alla matematica dobbiamo la scoperta, solo negli ultimi vent’anni, delle forze organizzative di base che dominano buona parte dei fenomeni in apparenza inspiegabili (come le fluttuazioni finanziarie improvvise o manifestazioni senza precedenti di violenza). Non significa affatto che siamo e saremo in grado di prevedere il futuro; abbiamo però qualche nozione in più per immaginare gli eventi leggendo gli indizi che la realtà ci propone. Nessuna deriva deterministica, però; l’atomo sociale è libero di agire ma quando lo fa, lo fa secondo la propria natura che è soprattutto adattiva ed exaptiva, imitativa e cooperativa. Eccolo, il contributo di Buchanan: ricordare che l’uomo oltre a essere atomo sociale, agisce (e sceglie) per adattamento, imitazione e cooperazione. Attraversare una crisi sapendo che queste sono le caratteristiche dell’agire umano significa disporre già delle direttrici di azione. Insomma, possiamo arrabattarci meglio e sperare di contenere i danni. Per vivere in un modo dominato dall’incertezza c’è bisogno di strutture organizzative adattive, imitative e cooperative.