Nel vertice dell’11 marzo i 17 dell’Eurozona hanno detto al patto per la competitività in salsa teutonica. Attesa per l’incontro definitivo del 24. L’incognita delle banche

Lo hanno ribattezzato “patto per l’euro” e rappresenta la versione edulcorata del patto per la competitività proposto a inizio anno da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. A quanto pare, infatti, gli altri Paesi dell’Eurozona hanno deciso di opporsi al diktat franco – tedesco sulle regole a salvaguardia della moneta unica e a conclusione del vertice del Consiglio europeo dell’11 marzo hanno ottenuto l’accordo su un quadro normativo decisamente più morbido rispetto a quanto avrebbe voluto Berlino. In attesa della conferma definitiva, che arriverà con la prossima riunione del 24 e del 25 marzo, i 17 dell’area euro si impegnano a intraprendere politiche economiche e di bilancio atte a “estirpare divergenze eccessive e squilibri strutturali, che hanno un impatto sulla competitività delle singole economie e che sono stati all’origine della grande crisi dell’euro”. Il punto è che le norme indicate non hanno alcun valore vincolante da parte delle istituzioni comunitarie: mancano riferimenti a meccanismi di controllo e di sanzione specifici per punire gli Stati eventualmente inadempienti all’intesa. “E’ un impegno politico da realizzare su base volontaria e senza cifre al seguito, secondo le modalità scelte da ciascun governo. Sotto la sorveglianza a cadenza annuale di Bruxelles” recita il comunicato finale rilasciato dal vertice. In altre parole, gli Stati che adottano la moneta unica non sarebbero legati a nessun obiettivo di politica economica comune con i partner europei, se non per il ruolo di supervisione assegnato alla Commissione, in netto recupero dopo che, nelle scorse settimane, pareva essere stata esclusa dai giochi condotti dalla coppia Parigi – Berlino. Insomma, qualcosa di ben lontano proprio dalla visione di Merkel e Sarkozy, che per rilanciare l’economia continentale e scacciare i timori sul rischio sovrano avevano addirittura proposto l’inserimento di leggi costituzionali nazionali atte a blindare i bilanci dentro i parametri di Maastricht del 3% per il deficit e del 60% per il debito pubblico e lo svincolamento dei salari dei lavoratori europei dal tasso di inflazione. Diversamente, i 17 dell’Eurozona auspicano “un’evoluzione delle retribuzioni in linea con l’aumento progressivo della produttività” e “una riforma complessiva del mercato del lavoro focalizzata sull’eliminazione di restrizioni ingiustificate ai servizi professionali e nel commercio”. Sale, invece, la dotazione del fondo Salva Stati, che è stato portato da 250 a 440 miliardi di euro effettivi e la cui operatività viene estesa agli acquisti di titoli sul mercato primario. Nessuna intesa, infine, sulla definizione di una base imponibile comune per le società, fortemente avversata da Irlanda, Lussemburgo, Repubblica Ceca, Slovacchia ed Estonia, e il cui rifiuto è valso all’ex tigre celtica il mancato sconto sul rimborso dei prestiti concordati lo scorso autunno con Ue e Fmi. L’atteggiamento adottato verso il caso di Dublino, in particolare, dimostra come il convitato di pietra della riunione sono stati gli istituti bancari del continente (in primis quelli tedeschi) e gli interrogativi circa l’ammontare delle loro sofferenze e la conseguente capacità di supportare la ripresa economica: i recenti declassamenti dei rating di Grecia, Portogallo e Spagna da parte delle agenzie specializzate tengono viva tra gli investitori la speculazione contro i debiti sovrani dei Paesi in difficoltà, mentre l’annunciato rialzo del costo del denaro dello 0,25% da parte della Bce per contrastare l’inflazione dei prezzi e l’avvio di un nuovo round di stress test per le banche promette una decisa stretta al finanziamento delle imprese. Forse, allora, per iniziare a vederci più chiaro e capire se un programma per la crescita sia davvero possibile, bisognerebbe prima prendere atto del fatto che la crisi dell’Europa è fondamentalmente una crisi delle banche. Le banche, infatti, sono all’origine dell’indebitamento spropositato degli Stati più deboli (Irlanda docet) e ora, in difficoltà nel recuperare i propri crediti in un’economia che ristagna, esitano a sostenere i progetti di ripartenza. D’altra parte, di fronte al timore di vedere chiudere i rubinetti del credito, all’incedere della crisi l’Europa ha ritenuto conveniente trasformare in pubblico il debito di quegli stessi istituti privati da cui, ora, vorrebbe più risorse. Un circolo vizioso da cui in un modo o nell’altro bisognerà uscire.